449^ mostra che si inaugura sabato 9 giugno
Quante volte un fotografo, vicino a una sua opera, esposta magari in una mostra, ha sentito esclamare “che bella foto… sembra un quadro!”, da un visitatore che aveva l’intenzione di fare un complimento all’autore? Molte, troppe volte! E quante volte un pittore realista o iperrealista, ha sentito esclamare da un estimatore estasiato “ma guarda che lavoro incredibile, sembra una foto!”? Ancora molte». In queste parole del curatore Guido Cecere ci sono i presupposti della 449^ mostra che si inaugura sabato 9 giugno, alle 17.30 nella Galleria Sagittaria di Pordenone: “Sembra un quadro. Sembra una foto. Rispecchiamenti e ibridazioni fra fotografia e pittura”. Precisa poi il co-curatore Angelo Bertani: l’esposizione si propone «fin dal titolo un po’ provocatorio e un po’ ironico, di andare oltre il luogo comune a cui fa riferimento e di indicare, per esempi significativi, alcune positive e fruttuose relazioni intercorse tra la fotografia e la pittura, e naturalmente le tecniche ad essa imparentate». Promossa dal Centro Iniziative Culturali Pordenone con il Centro Culturale Casa A. Zanussi Pordenone, la mostra metterà dunque a confronto fotografia e pittura e farà riflettere sulle somiglianze e sulle influenze reciproche dei due linguaggi visivi nel corso degli ultimi centottanta anni. Lo farà attraverso un percorso espositivo caratterizzato dalle opere di 56 artisti italiani e internazionali, in cui si spazia dalla “Marilyn” di Andy Warhol, iconizzata da una foto provino di Frank Powolny nel backstage dello storico film “Niagara”, ai due noti ‘boxeurs’ immortalati con tecnica a sali d’argento nel 1928 da August Sander e sessant’anni dopo trasposti in incisione da Franco Dugo. E se il “prima” e il “dopo” non fosse richiamo esaustivo, Gianluigi Colin accosta al “Cristo morto” del Mantegna il corpo di Che Guevara, mentre Serse confonde il nostro sguardo, fra vero e verosimile, la raffigurazione di un mare increspato sospesa in una dimensione senza tempo. In mostra troveremo anche uno dei famosi paesaggi marchigiani “graficizzati” in bianco nero di Mario Giacomelli, qui abbinato a un’incisione di Tullio Pericoli, ispirata anch’essa dal paesaggio collinare marchigiano trattato con lo stesso spirito di sintesi. In piena sintonia con il clima dell’informale pittorico è la fotografia firmata nel 1954 da Nino Migliori che raffigura un muro con scritte e manifesti strappati; tema che sarà ripreso l’anno dopo da Mimmo Rotella con i suoi “decollages”. Citazioni fotografiche realizzate restituendo il sapore di dipinti fiamminghi seicenteschi o delle nature morte novecentesche sono quelle di Mauro Davoli, Joel Meyerovitz, Sergio Scabar, pur se con caratteristiche stilistiche e tecniche assai diverse fra loro, e facile viene il richiamo ideale anche a Giorgio Morandi o a Gianfranco Ferroni, quest’ultimo ottimo fotografo (ma poco conosciuto in questa veste) oltre che celebre pittore, disegnatore, incisore. Un capitolo della fotografia sperimentale legata al mondo della Fine Art è quello relativo al sistema Polaroid: dai primi anni Settanta già molto amato dagli artisti Pop, utilizzato in modo “anomalo” da Lucas Samaras e altri ancora dopo di lui, con pressioni sulla superficie (Polapressure) o distacco dell’emulsione (Lifting) o trasferimento dell’emulsione su altro supporto (Polatransfer). Tre pionieri e grandi interpreti di queste tecniche in Italia sono stati Nino Migliori, Giovanni Gastel e Paolo Gioli, di cui possiamo ammirare in mostra tre opere straordinarie che recuperano il valore del “pezzo unico” e del “fatto a mano” tipico dell’“opera d’arte”. In mostra il pubblico troverà anche opere, fra gli altri, di Bruno Aita, Alice Andreoli, Farkas Antal, Bruno Beltramini, Gianni Bertini, Pietro Bertoja, Samuel Bridi, Ariel Cabrera Montejo, Stefano Ciol, Piermario Ciani, Mario Giacomelli, Todd Hido, Roberto Kusterle, Alexa Meade, Leonard Misonne, Carlo Naya, Mauro Paviotti, Massimo Poldelmengo, Sven Pfrommer, Louis Riviei, Manuela Sedmach, Aldo Tagliaferro, Pete Turner, Franco Vaccari, Ruozhe Xue, Safet Zec.
«Le contaminazioni tra fotografia e pittura che presentiamo – spiega la presidente CICP Maria Francesca Vassallo – intendono rilevare l’impegno creativo di artisti ormai affermati, ma sempre in ricerca, e anche il nuovo di giovani artisti che non ripudiano ma valorizzano ogni possibile fruibilità di strumenti creativi che i nostri tempi offrono alla loro ispirazione. Come sempre il Centro di Iniziative Culturali di Pordenone punta alla promozione di conoscenze con sguardo innovativo e attento a cogliere i fermenti del momento». La mostra è realizzata in collaborazione con la Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, con ISIA Roma Design – Sede di Pordenone e con Crédit Agricole FriulAdria. Resterà visitabile fino al 9 settembre 2018: visite dal martedì alla domenica, dalle 16.00 alle 19.00. Ingresso libero. In Galleria sarà acquistabile il libro-catalogo della mostra. Attivabili a richiesta le visite guidate per gruppi. Info CICP tel.0434.553205 www.centroculturapordenone.it
“Da oggi la pittura è morta”: si narra che nel momento in cui la Fotografia, o meglio la Dagherrotipia, fu ufficialmente annunciata a Parigi nel 1839, il pittore francese Paul Delaroche così avesse commentato. Aveva già colto l’incredibile importanza del salto tecnologico che il mondo stava registrando o intendeva porre l’accento sulla minaccia di concorrenza che il nuovo mezzo avrebbe costituito per i pittori, soprattutto i ritrattisti? Entrambe le cose, probabilmente. «È con la Pop Art inglese e americana che la Fotografia entra alla grande nelle opere d’arte d’avanguardia – spiega Guido Cecere – sia sotto forma di collage, riprendendo quindi una pratica cara al Cubismo e al Dadaismo (pensiamo a Peter Blake o a Richard Hamilton), sia con l’innovativo uso del riporto fotografico su tela, o l’uso della tela emulsionata. Negli USA sia Robert Rauschemberg che Andy Warhol “sdoganano” la serigrafia, tecnica fino ad allora usata solo per la stampa cartellonistica industriale, facendola entrare nel campo delle Fine Arts. Warhol, poi in particolare, propone anche il “fuori registro”, che fino ad allora era considerato un incidente tecnico, e ne fa invece un suo segno artistico distintivo. La tecnica serigrafica, abbinata all’alto contrasto e alle tinte piatte, si presta a stampare su tela o su carta una qualsiasi immagine fotografica, anche ricavata da un quotidiano oppure ripresa da una fotografia vera e propria, come per la Marilyn in cui viene utilizzata una foto, diciamo, “rubata”. In questo modo le immagini di politica e cronaca nera, o le immagini iconiche di divi e cantanti, come Liz Taylor, Elvis Presley e altri, migrano dai mass media sulle tele, e si ritrovano a convivere con altre immagini pubblicitarie o di fantasia, creando quel melange tipico degli anni Sessanta che sta a significare l’universo della comunicazione massificata».
«La mostra Sembra un quadro, sembra una fotografia, non pretende certo di essere esaustiva riguardo a un tema così articolato e complesso come quello del rapporto tra fotografia e pittura – osserva ancora Angelo Bertani – ma come in ogni esposizione a tema, vi è un filo rosso da seguire, rappresentato proprio dalle opere in mostra. Si riconosceranno facilmente la fedeltà alla grande tradizione pittorica (Gianfranco Ferroni) o grafica del Novecento (Andrea Barin, Tullio Pericoli, Safet Zec), il confronto diretto con le immagini fotografiche di grandi autori (Franco Dugo) o perfino con quelle del cinema (Ariel Cabrera Montejo); l’icona pop di Marilyn (Andy Warhol), i ritratti perspicuamente analitici o decisamente iperrealisti (Alice Andreoli, Vania Comoretti, Gabriele Grones); e ancora opere che fanno riferimento a una persistenza quasi onirica e visionaria nella pittura (Bruno Aita, Gian Marco Montesano, Ruozhe Xue) e quelle che invece rielaborano il dato fotografico servendosi di tecniche calcografiche (Massimo Poldelmengo) o una pittura in cui, in diverso modo, realtà e soggettiva evocazione si confondono, come per Andrea Mario Bert, Gianni Bertini, Paolo Del Giudice, Serafino Maiorano; non manca infine, a rimarcare l’esigenza contemporanea di liricità, la ricerca di una nuova soglia, di un rinnovato concetto di sublime a partire dall’isolamento di un personale microcosmo: pensiamo a Manuela Sedmach e a Serse».