Il Nabucco in scena al Verdi di Trieste conduce ad un bivio: se lo si guarda inquadrandolo nel filone degli spettacoli di onesta tradizione, oleografici – aggettivo stra-abusato quando all’opera ci si annoia – e “di maniera” non c’è niente che non vada. C’è un’ambientazione più o meno storica, scene e costumi sono come uno se li aspetta (che poi cosa ne sappiamo noi pubblico in sala di come si vestissero i babilonesi nel settimo secolo a.C.?!), ci sono un cast funzionale e un direttore che sa far quadrare i conti. Insomma è il più classico dei Nabucchi di buona provincia.
Però se si osserva la faccenda da un’altra prospettiva, cioè quella di chi pensa che l’opera sia innanzitutto teatro, le cose cambiano. Sì, è vero che Nabucco è un titolo insidiosissimo, è vero che si lavora sempre con frenesia e tempi stringatissimi, è vero che ci sono mille compromessi da incastrare, però ci si chiede: perché? Perché non provare a sbozzare un po’ i caratteri, emancipandoli dalla routine e dalle secche della tradizione? Perché non esplorare più a fondo la reciprocità dei personaggi, le loro ombre? Magari anche a calcare un po’ la mano su quanto c’è di meschino, violento, vile, ipocrita e, perché no, anche cringe, in quest’opera. Insomma a smuovere le oneste e ben create coscienze che vanno a teatro per sentire il “Va pensiero”. E facciamolo andare, sto pensiero! Facciamolo incazzare sto benedetto pubblico, prendiamolo a pugni nello stomaco, o almeno proviamoci! Certo questo è un problema su larga scala e non riguarda il solo Verdi di Trieste, però il pubblico invecchia e non è solleticando i capricci della frangia più reazionaria e ostile alle novità che se ne attira di nuovo.
Ciò detto, lo spettacolo, prendendolo per quel che è, cioè il milionesimo Nabucco sword and sandal, funziona discretamente. Le scene di Emanuele Sinisi rimandano a un’antichità generica che piace sempre e non scontenta mai, Danilo Rubeca che riprende e rimonta la regia di Andrea Cigni ha diversi meriti (uno su tutti: spazza via certi topoi del melodramma cabalettaro) e qualche limite, ma soprattutto c’è una direzione musicale molto buona. Christopher Franklin non è un volto nuovo per il pubblico triestino e dà prova, ancora una volta, di cogliere nel segno indipendentemente dal repertorio. Tiene bene insieme palco e orchestra, cura narrazione e sonorità, è vario, pulito e serrato il giusto. I complessi del Verdi sono in ottima serata, così come il coro, preparato da Francesca Tosi.
Giovanni Meoni è un protagonista di consumato mestiere che, pur con mezzi non troppo accattivanti, dice, accenta e sfuma; in definitiva porta a casa un Nabucco coerente e convincente. La Abigaille di Amarilli Nizza parte male nel primo atto, si tira di qua nel secondo e va crescendo dal duettone in avanti. Alla fine la sfanga anche se non entusiasma. Gran musicista e cantante, Nicola Ulivieri non trova nella scrittura di Zaccaria il terreno più fertile per esaltarsi: meglio i momenti più lirici (la preghiera), un po’ meno quelli che sollecitano gli estremi della tessitura.
Bravissima la Fenena di Aya Wakizono che è bella e sa muoversi e cantare, così come convince l’Ismaele di Riccardo Rados: le qualità ci sono e sono notevoli, ma vanno ancora un pelo rifinite.
Positivo l’apporto di tutti i comprimari: Abdallo (Andrea Schifaudo), Anna (Rinako Hara) e Il Gran Sacerdote di Belo di Francesco Musinu.
Successo pieno.
Paolo Locatelli
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