Non è facile categorizzare questa interessante pellicola, a metà strada tra il documentario e la fiction, che mette in scena l’esplorazione dell’Abisso del Bifurto, un inghiottitoio che scende per 683 metri nel suolo calabrese, che attualmente occupa il quarantesimo posto nella classifica delle grotte più profonde del mondo.
L’impresa venne portata a termine nel 1961, in pieno boom economico, da una spedizione di giovani speleologi settentrionali, che a tale scopo si addentrarono nel profondo Sud. Ed è proprio con il stridente contrasto tra Nord e Sud che Frammartino comincia la sua pellicola.
Una trasmissione televisiva di quegli anni ci mostra la salita sul Pirellone, al tempo uno dei grattacieli più alti d’Europa, da parte di un giornalista e di un dirigente del gruppo industriale che lo costruì.
I due dialogano tra loro, sorretti da una passerella esterna, destinata ai lavavetri, che si arrampica velocemente sulle pareti vetrate dell’edificio, mentre un cameraman riprende sia la città sottostante che l’interno del palazzo.
Si tratta dell’unico dialogo intellegibile di tutto il film. Poi la scena si sposta nella silenziosa campagna calabrese, dove l’uomo non ha ancora pesantemente modificato l’ambiente, come nelle metropoli del nord, ma vive in modo semplice, in armonia con i ritmi della natura.
La telecamera alterna primi piani di un pastore, del quale non ci è dato conoscere nulla, e campi lunghi dei paesaggi calabresi, dove gli unici suoni sono quelli del vento, quelli degli animali e i richiami del mandriano, nel suo dialetto incomprensibile.
Poi entrano in scena gli speleologi, che arrivano in treno nella stazione di Villapiana, per venire successivamente portati da una camionetta militare prima in un paesino dell’interno, e quindi sul sito in aperta campagna dove si apre la grotta.
Il Buco: un film dalla narrazione rarefatta, quasi metafisica
A parte quello della trasmissione televisiva sul Pirellone all’inizio, nel film non ci sono dialoghi strutturati. E non c’è colonna sonora. Gli eventi scorrono lentamente, ma non ci viene spiegato nel dettaglio quanto accade. Non sappiamo i nomi dei personaggi, chi ha avuto l’idea di compiere l’impresa, chi l’ha finanziata e perché.
Ma non ha importanza, perché questo film non è un vero documentario. La lenta narrazione ben presto si divide tra le vicende del pastore e quelle della spedizione, due storie che scorrono parallele, senza mai incontrarsi veramente, a parte lo sguardo del vecchio che, dall’alto, indugia sulla camionetta militare che arriva sull’ingresso della grotta.
E Frammartino alterna questi due racconti con ritmi lenti, nei quali attori non professionisti mettono in scena in sé stessi, senza che sia possibile identificare un protagonista umano che percorra un vero arco narrativo.
Unica eccezione è (forse) l’anonimo pastore calabrese, del quale ci viene mostrata prima la sua tranquilla vita quotidiana, e poi il suo altrettanto tranquillo trapasso, circondato dai suoi amici nella malga montana.
Ma questa storia è probabilmente da intendersi come una metafora dell’immutabile ritmo della natura, che ancora governa i paesaggi agresti calabresi degli anni sessanta, mentre mentre il Nord è in pieno, tumultuoso boom economico.
Ritmo della natura che comunque, al di là delle apparenze, nei fatti continua a regolare la vita dell’uomo anche quando si illude di potere controllare e manipolare il mondo a suo piacimento. Non per niente, la morte dell’anonimo contadino coincide con la scoperta dell’ultimo tratto dell’Abisso del Bifurto, che pone fine all’impresa degli speleologi settentrionali.
L’uomo può progredire tecnologicamente quanto vuole, può inventare nuovi strumenti per spostare in avanti i limiti delle sue conoscenze, ma ci sono soglie che non possono essere superate.
Il Buco: un apprezzabile film d’autore fuori dagli schemi consueti
Forse è nelle stesse parole di Frammartino che possiamo trovare indizi per comprendere meglio questa pellicola: “Mi ha sempre colpito la coincidenza che speleologia, cinema e psicoanalisi nascano nella stessa data, il 1985”.
A partire dal mito della caverna di Platone, il mondo sotterraneo è sempre stato metafora o allegoria di altre realtà. Nel film di Frammartino, i giovani speleologi settentrionali che si addentrano nel contorto abisso calabrese si contrappongono con la salita verticale sulle lisce pareti del Pirellone.
Due moti opposti, che sottolineano le profonde differenze tra in Nord e il Sud negli anni sessanta.
Due movimenti avvenuti grazie alle nuove tecnologie a disposizione dell’uomo, che si illude di potere controllare la realtà a suo piacimento. Ma entrambi i movimenti sono destinati a durare poco.
Il primo si arresta quasi subito, all’inizio del film, quando la passerella raggiunge l’ultimo piano dell’edificio. Il secondo si ferma alla fine della pellicola, quando gli speleologi, dopo giorni di esaltante esplorazione, devono arrendersi davanti alle inviolabili pareti rocciose che delimitano la fine della caverna.
Anche la vita dell’anonimo pastore giunge al suo termine, senza drammatizzazioni emotive, in quanto ci viene mostrata nella sua inevitabile naturalezza. Ed è proprio la Natura, forse, la vera protagonista del film.
Frammartino ce la fa vedere con innumerevoli campi lunghi e lunghissimi, nei quali l’essere umano sembra sparire, e invece dominano le montagne, i verdi pascoli, piccole mandrie che si muovono in un contesto dove è bello perdersi, cullati dai movimenti delle nuvole, dai colori dei tramonti calabresi, dal ritmico pulsare del faro di Capo Spartivento.
Campi lunghi che contrastano con i primi piani dei pastori, in fondo paesaggi anch’essi, che alludono a un mondo che vive un’esistenza tranquilla, in barba alle illusioni dei nuovi arrivati dal Nord.
Significativo, a tale riguardo, il fatto che i giovani speleologi usino frammenti di giornali dati alle fiamme per illuminare l’abisso nel quale devono calarsi, gettando le improvvisate torce nel buio dell’inghiottitoio.
E i loro residui vengono calpestati dagli esploratori, i cui scarponi schiacciano le immagini di Marilyn Monroe, Kennedy e Sophia Loren. Icone del loro tempo, i cui simulacri cartacei vengono alla fine inghiottiti dall’Abisso del Bifurto, nel quale scompaiono, inutili detriti di una società nevrotica che distrugge i suoi stessi miti.
Alla fine, rimane solo la Natura.
Il Buco è un lavoro autoriale lento, originale, meditato, curato nei minimi dettagli (molto belle anche le inquadrature all’interno della grotta), fotograficamente meraviglioso, nel quale è bello immergersi, dimenticando per un ora e mezza il ritmo forsennato della vita quotidiana di ogni giorno.
Da vedere.
Alessandro Marotta