Il Teatro Verdi di Trieste inaugura stagione ed anno verdiano con Il Corsaro, lavoro poco frequentato ma non privo di fascino, che esordì nel 1848 nello stesso teatro triestino. Scelta coraggiosa e in fin dei conti vincente, considerata la calda accoglienza tributata dal pubblico presente in sala.
Direttamente da Byron, Il Corsaro è un’opera minore ma ricca di spunti originali (finale secondo e duettone del terzo atto su tutti) in cui non è difficile scorgere alcuni sapori che troveranno piena realizzazione nei capolavori della maturità; affascinante sotto il profilo musicale, meno dal punto di vista teatrale che, come per altri lavori verdiani degli anni di galera, appare, nell’eccesso di semplicità, distante dalla sensibilità contemporanea.
Gianluigi Gelmetti nelle vesti di factotum della città si occupa di direzione musicale, regia e progetto luci. Convince nei panni che gli sono più consoni offrendo una concertazione sorvegliata, attenta alle esigenze del palcoscenico, e guidando l’orchestra, precisa e compatta, con buon senso della narrazione pur senza concedersi particolari guizzi o lampi di genio.
Lascia diverse sensazioni l’allestimento. Gelmetti sceglie di rivisitare la vicenda byroniana in senso antropologico, estendendo il dramma privato di Corrado a scontro di civiltà – o meglio di religioni.
L’idea registica è chiara, l’inquietudine di Corrado, caratterizzata dallo slancio eroico di stampo romantico, sottende ragioni di respiro maggiore: lo scontro tra il mondo giudaico-cristiano, impersonato dal corsaro stesso e il mondo musulmano di Seid, dualismo che nella visione di Gelmetti assume caratteri estremizzati a sfavore dei secondi. Qualunque sia il valore intrinseco del konzept, che sarà giudicato più o meno benevolmente a seconda della sensibilità e della cultura dello spettatore, va ravvisato un difetto di fondo nella realizzazione dello stesso. Le sole idee, per quanto ricche, originali o discutibili, non bastano ma necessitano di una tecnica registica che sappia realizzarle con coerenza e senso del teatro. Lo spettacolo inciampa in questo punto, rimanendo di fatto in sospeso tra la teoria e la pratica. L’impressionante mole di spunti disseminati dall’inizio alla fine dello spettacolo in fin dei conti lascia poco, spesso è ridondante o confusa, talora imperscrutabile anche ad una meditazione più approfondita. La cervellotica complessità dell’allestimento, anziché arricchire il valore teatrale del lavoro verdiano, finisce per gravare ulteriormente su una drammaturgia già di per sé zoppicante. Manca la coerenza espositiva delle tesi, manca il lavoro su solisti e masse (abbandonati alla più frusta tradizione delle pose da teatro d’opera degli anni che furono), manca un disegno che sappia legare l’immagine alla musica. Non giovano costumi e scenografie che in alcuni momenti rasentano (involontariamente) il grottesco.
L’esecuzione musicale si colloca invece su ben altro livello. Luciano Ganci convince nei panni del protagonista Corrado forte di una voce di bel colore e di un registro acuto squillante e sonoro, pur sembrando poco interessato ad approfondire le ragioni del personaggio (che per quanto deboli e contorte meriterebbero altra considerazione). Gulnara è il soprano Paoletta Marrocu, voce di per sé povera di fascino e gestita con alterne fortune in un canto non sempre irreprensibile. Il soprano si è resa protagonista di una prova in crescendo dopo un inizio non tra i più felici. Piace la Medora di Mihaela Marcu, bel timbro, bella figura e buone intenzioni di canto pur debitrici ad un registro grave tutt’altro che sonoro. Alberto Gazale dà di Seid un ritratto a senso unico in linea con la visione registica manichea ma sa risolvere con arte e sicurezza l’impervia scrittura musicale.
Degna di nota la lodevole iniziativa del sovrintendente Orazi di promozione dell’opera tra i più giovani, numerosi in teatro come non accadeva da molto tempo.
Paolo Locatelli
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