Per imparare ad essere una buona moglie bastano davvero pochi comandamenti; e, se sorrette dalla buona sorte, non si rende neppure necessario che seguiate le lezioni all’école, studiate sui libri e sui pamphlet e conosciate il modo migliore per sapere come destreggiarvi nella gestione dei rapporti, dopo aver ottenuto l’ingresso in società; no di certo: in casa passeggiate e prendete bagni d’ombra, non sia mai che vogliate varcare la soglia di quest’aurea gabbia … ma segregate, quasi in una semi-prigionia, trascorrete le giornate a ricamare colletti e berretti da notte, lontane dalla vita mondana, come in una torre eburnea, nelle vostre stanze dalle ampie finestre da cui potrete scorgere ciò che fuori sembrerebbe chiamarvi; e guai a voi se provate a darvi ascolto: continuate ad attendere notte e giorno susseguirsi senza domandarvi nulla, e date retta soltanto a chi di voi s’è preso cura fino ad ora. Fate come Agnese: siate gentili, corrette, a modo, ignare di tutto. E obbedite di buon grado al vostro Arnolfo. “Meglio una donna sciocca che una donna che sappia anche solo scrivere; se lo sa fare, sarebbe un vero pericolo …” E’ così che fra le prime battute si apre la celebre commedia di Molière, l’École des femmes, nella versione italiana curata da Giovanni Raboni, per la regia di Marco Sciaccaluga e prodotta dal Teatro Stabile di Genova, con la pretesa, riuscita invero, di presentare una ben congeniata costruzione comica, a tratti psicologizzante, benevolmente accolta dal pubblico del Teatro Verdi di Gorizia che, per la Stagione della Prosa, risponde al suo secondo appuntamento. Lucidamente si osserva la scena (il modernissimo allestimento di Jean-Marc Stehlé, conforme all’ormai comune tendenza ad abbandonare la piantazione tradizionale, creato con un’unica struttura mobile, divisa in tre differenti spazi scenici -la strada, la bottega, l’interno della casa -) muoversi in un tempo composto da affettazione e puro savoir-faire; la platea, conscia della distanza cronologica che la separa da questi, sembra forse più disposta a recepire le materie umane dell’opera, ed ogni sfumatura ed ogni finezza, rispetto alla non ottima predisposizione d’animo dei benpensanti contemporanei all’autore; non pare, infatti, che questi fossero troppo felici della rappresentazione comportamentale della società dell’epoca: lo scrittore-attore (suo il ruolo di Arnolfo) ebbe a lottare per ottenere la pubblicazione delle opere più tarde, nonostante godesse della protezione di Luigi XIV, proprio a causa dello scandalo che la commedia suscitò dopo la sua prima messa in scena. Non è difficile immaginare quanto potesse apparire effettivamente indecoroso e osceno un triangolo amoroso nella seconda metà del ‘600, il tradimento, gli inganni, i sotterfugi, le bugie, l’onore e la reputazione infranti, benché consueti. Agnese (Alice Arcuri), giovane ragazza affidata alla tutela di Arnolfo (Eros Pagni), fin dall’età di quattro anni, a motivo della miseria della madre, seppure educata alla rettitudine e benché lontana dalle insidie e dalle tentazioni che la società subdolamente partorisce, cede alle lusinghe di Orazio (Roberto Serpi) che, tornato da poco in città, tenta in ogni modo di condurla a sé come sposa; vani i tentativi dell’anziano tutore e presunto marito Arnolfo per impedire che ciò avvenga. Attraverso una serie di espedienti scenici tipici del teatro comico (colpi di scena, agnizioni, fraintendimenti, servi onniscienti e complici degli inganni) e grazie all’azione imperscrutabile della fortuna, il progetto di felicità dei due giovani avrà buona riuscita e a nulla varranno le scenate di gelosia e la rabbia dell’ostinato padrone di casa che si ritroverà a dover soffocare i suoi sentimenti nel fallimento, non potendo fare sua la ragazza, ma salvandosi paradossalmente dal peccato dell’adulterio. (”Se non essere cornuti vi sembra un gran bene, l’unico modo è non sposarsi affatto’’, atto V). Per avere un saggio della commedia vale la pena ricordare anche solo i primi minuti, la prima scena, in cui Arnolfo rende note al ragionevole amico Crisaldo(Federico Vanni) le sue tesi sul matrimonio e sulla disonestà delle donne troppo colte e intelligenti, le quali per loro natura sono portate ad essere fedifraghe e a prendersi gioco inevitabilmente dei propri compagni. In verità, al di là della vena satirica dello spettacolo, per avere un’idea del teatro, un’immagine reale del teatro- in-sé, nella sua più sublime forma, basterebbe osservare e udire parlare l’Arnolfo di Eros Pagni: dinnanzi ai giganti del palcoscenico non ci resta che silenziare.
Ingrid Leschiutta