La visione, l’immaginazione, l’onirico, l’inconscio, forse più reali del reale: maestosità regali che reggono il flusso del chiamare fuori il pensiero, dell’e-vocare, dell’in-vocare, della voce che sgorga dal sé, dal me, dal noi, dal noi-stessi, dal noi-tutti, dall’uomo, verso mete trascendenti e imperscrutabili, ma anche discendenti, perché tendenti verso una coscienza umana, terrena; un essere dotato di corde vocali, di vibrazioni sonore piene di senso, ma attanagliato da altre corde che soffocano e incatenano la mente che sola, libera, ha il dovere di pensare e di far pensare, di fecondare e di partorire meditazioni, mediazioni, e senza media, mega-azioni coniugate al plurale, comuni-c-azioni, ma indipendenti, inter-dipendenti, auto-dipendenti, autonome, serve soltanto della legge del pensiero, unico nomoteta necessario e cura terapeutica del male soporifero del nostro sonno del non considerare.
Il cancro del nostro cervello in metastasi culturale richiede un’operazione d’emergenza, un soccorso immediato che ci risvegli da svegli, attraverso simboli, interpretazioni, sogni, allucinazioni, esorcizzazioni, immagini, angosce primordiali, accessi privilegiati per penetrare quell’infinita vastità che, soltanto se educati ad una correzione ottica rispetto alla deformità delle nostre minime visioni, ci possa svelare la complessità di cui e da cui siamo permeati. Urge liberarsi dal sonno, non dal sogno, ma dal bi-sogno, dalle richieste continue e desiderate ma vuote e inappagate, e chiedersi piuttosto i perché: urgono domande, e dei doveri, anche quelle del “dov’eri?”, del dove eravamo mentre credevamo di riflettere ma soltanto un riflesso reattivo, nocivo, emanavamo dal nostro diritto a rispondere a questioni non poste, ma imposte, decise e condizionate da un serial-chi?, di cui non conosciamo che la subdola ripetitività nel perpetrare l’assassinio dello spirito, anima dell’idea? Soltanto la parola, l’arte e l’arte della parola possono liberarci da questa detenzione coatta, in cui l’attore più istrione ed estroso di noi stessi, il pensiero, sembra brancolare nel buio, protraendo la rinuncia alla ricerca delle radici del suo colmarsi nel tutto e del suo votarsi all’incommensurabile per prendere forma.
Bergonzoni si trasforma in un igienista mentale: l’incantatore del verbo questa volta si dota di un filo intermentale lungo centocinque minuti, nel tentativo di ripulire il meccanismo di anestetizzazione attivato dalla consuetudine, dall’ordinario, dal precostituito e dall’assenza del dubbio; attraversando l’ermeneutica onirica, la favola e la quotidianità, l’attore si muove come se stesse procedendo nei meandri della mente d’ogni uomo, ipnotizzando lo spettatore tra allitterazioni, consonanze, giochi di parole intessuti d’una comicità irresistibile e inarrestabile, e conducendolo a realtà altre che spesso, seppure antitetiche, coesistono a quelle che comunemente si ammettono come possibili. Un disvelamento straniante che rigenera il pensiero in un moto ondoso che pare non infrangersi mai, senza posa fluire all’interno d’una scena che risponde alle esigenze d’un monologo che deve lasciare spazio alla creazione linguistica, mentale ed immaginifica: strutture in ferro che diventano una cella o un tavolo su cui scrivere una sceneggiatura e aste microfoniche sormontate da luci che appaiono come icone di un’altra realtà spettatrice, o attrice, in un caleidoscopico inganno di specchi.
Così, in un’opera che echeggia il paradigma del “nessun dogma”, l’invito dell’autore è quello di stare colmi, e non calmi, ma pieni di pensiero, e di parola: cercando di non rimanerne meri tecnici fatici e incantevoli affabulatori, è possibile servirsi anche degli strumenti della retorica, che non è altro che la figura e la rappresentazione della parola stessa, espressione e riflesso della mente, matrice e causa della demistificazione di ogni forma preconcetta e non disposta all’apertura.Perché se efficace denuda, togliendo il velo anche al pensiero più pudico.
Ingrid Leschiutta