Dal nostro corrispondente dalla Germania
Domani, 10 Febbraio, sarà il Giorno del Ricordo. Ricordo di un argomento doloroso della storia d’Italia, controverso e dibattuto come pochi, tra revanscismi, verità di comodo e oscurantismi di partito. Ricordo del martirio di troppe persone, in una terra martoriata dalla violenza: persone che hanno pagato la loro italianità con le sevizie e con la vita, nel migliore dei casi con l’esilio o con l’abiura delle proprie origini. Il motivo di questa pulizia etnica è stato spesso imputato all’esasperazione del popolo jugoslavo nei confronti dell’occupazione e delle angherie subite dai militari italiani (memoria dolorosa sono gli ordini del Generale Mario Roatta, maggior responsabile delle violenze italiane nella penisola balcanica). Le origini del conflitto etnico in Istria e Dalmazia sono tuttavia più remote, dovute a una convivenza difficile fra popolazione urbana, a maggioranza italiana, e popolazione rurale, a maggioranza croata o slovena. Convivenza che sotto il dominio Austro Ungarico non registra in realtà particolari problemi (forse semplicemente non si conoscono). Le controversie paiono scoppiare dopo Vittorio Veneto e la conseguente caduta dell’impero Asburgico: ovvero nel momento in cui l’insulsa politica del presidente statunitense Wilson, forte dell’aiuto dato all’Intesa per la vittoria, ha ignorato le clausole del Patto di Londra e sostenuto la nascita del Regno di Jugoslavia, creando malcontento in Italia e caos puro in Dalmazia. Frequenti le lamentele dei notabili italiani nei confronti dei soprusi dell’autorità croata. Ne seguì la bolla di sapone dell’impresa dannunziana e la politica repressiva negli anni della guerra, quando anche le zone non riconosciute all’Italia vennero occupate militarmente. Dopo l’8 settembre, ritiratasi la sgangherata armata italiana, che non sapeva più da chi dovesse difendersi, iniziò la rappresaglia titina, con le conseguenze che tutti conosciamo. Violenze e terrore spolparono l’Istria e la Dalmazia di una buona fetta della popolazione italiana: ben note sono le pratiche di utilizzo delle cavità carsiche e delle cave di bauxite da parte degli uomini di Tito. Molte persone vennero trucidate solo perché italiane, quindi fasciste, molte altre riuscirono a lasciare l’Istria e la Dalmazia e al loro arrivo in Italia, anche dopo la fine del conflitto, vennero spesso accolte con diffidenza, grazie alla propaganda che riuscì a dipingerli come ferventi fascisti vigliaccamente in fuga. Storico è l’episodio del cosiddetto “treno della vergogna”, con i profughi lasciati senza cibo né acqua nella stazione di Bologna, il cui personale minacciava sciopero se vi si fosse fermato il “treno dei fascisti”: i profughi saranno poi accolti a Parma.
Meno nota è probabilmente la sorte dei numerosi italiani di credo comunista che, vedendo nella Jugoslavia la patria del proletariato (soprattutto grazie alla propaganda di Togliatti), vi migrarono nell’immediato dopoguerra: verranno arrestati dopo la rottura fra la Jugoslavia e l’URSS, nel 1948, e deportati nei campi di prigionia del regime perché “comunisti conformisti”. Poche le notizie trapelate dall’allora PCI, che era al corrente anche della situazione del resto della popolazione italiana in Istria e Dalmazia. Poco noto rimane anche l’atteggiamento del regime titino nei confronti delle popolazioni albanesi, ungheresi e bulgare della Jugoslavia, che ricevettero un trattamento analogo a quello ricevuto dagli italiani. I rimaneggiamenti etnici del regime hanno poi definitivamente confuso la popolazione rimanente, slavizzandola quasi del tutto.
È stato doveroso, per lo stato italiano, dedicare prima o dopo una giornata per ricordare la tragedia delle foibe e dell’esodo: scelta doverosa quanto coraggiosa, poichè ha dovuto subire gli attacchi della sinistra più ottusa e dello stato Croato, entrambi rumorosi sotto lo stendardo del revisionismo storico e del revanscismo.
Si potrebbero spendere tante altre parole, aggiungere numeri, aneddoti, ma niente sarà comunque sufficiente per capire veramente cosa abbia voluto dire lasciare tutto quanto alle spalle, la casa, gli affetti, la propria attività, per fuggire alla violenza di un regime che tutto ha potuto impunemente fare, senza che i nostri famosi liberatori avessero mosso un dito. La cosa forse più dolorosa è che la voce di questa gente sia stata ignorata per decenni, soffocata nel fango della calunnia e infine dispersa nel silenzio. Migliore di mille discorsi può essere la vista degli scogli vicino al porto di Pola, su cui sono incise le parole delle persone che erano in attesa di imbarcarsi verso un ignoto destino.
Simone Callegaro