Dal nostro inviato a Venezia
Recensione – Viva la libertà! La libertà morale, intesa come coraggio di svincolarsi dagli obblighi sociali e dalle “imposture della gente plebea”, irrealizzabile chimera di uomini schiavi del sistema ed inevitabilmente attratti da chi riesca a spezzare le proprie catene per inseguirla, a costo della vita. Questo è Don Giovanni secondo Damiano Michieletto, regista cui il Teatro La Fenice di Venezia ha affidato la trilogia dapontiana, interamente riproposta in occasione del “progetto Mozart”, inaugurato dallo stesso Don Giovanni nel fortunatissimo e pluripremiato allestimento con le scene di Paolo Fantin, i costumi di Carla Teti e le luci (estremamente suggestive) di Fabio Barettin.
L’impianto scenografico presenta gli interni di un palazzo settecentesco, claustrofobico e vagamente decadente. Un efficace gioco scenico produce un continuo mutamento degli ambienti attraverso la rotazione delle pareti, restituendo l’impressione di un labirinto privo di vie di fuga. Don Giovanni è onnipresente, proiezione dei desideri femminili e delle aspirazioni (o dei complessi di inferiorità) maschili, signore del palazzo e delle vite altrui. La sessualità – in luogo della sensualità – è esasperata, la violenza esplicita ed abusata, massimamente nella figura del protagonista, guardato con orrore e disapprovazione dagli altri personaggi (quasi dei proto-borghesi) eppure continuamente inseguito. Un Don Giovanni rifiutato ma blandito, come fosse per loro – se non personificazione dell’inconscio – il lato oscuro di sé, il desiderio di assecondare i proprio istinti più biechi, animaleschi ed immorali. E tale è l’immedesimazione tra il libertino e i suoi interlocutori che nessuno di loro saprà sopravvivere alla morte del protagonista nel colpo di teatro finale escogitato dal regista.
Antonello Manacorda riproponeva il proprio Mozart, già ascoltato ed apprezzato dal pubblico veneziano durante le scorse stagioni. Un Mozart moderno, teso ed incandescente, persino violento, in cui il tragico prevale sul comico, non per la densità del suono ma per la pulsione ritmica e per la tensione drammatica. I tempi sono sostenuti ma coerenti, la tavolozza di colori ridotta al minimo, come è nel gusto odierno.
Stesso discorso per i cantanti. Sarà rimasto deluso chi si aspettasse voci imponenti adoperate in un canto chiaroscurato, fatto di forti contrasti e lavoro sulla parola, trovandosi di fronte a un linguaggio quasi da teatro di prosa se non televisivo, in cui la recitazione (al solito molto curata da Michieletto) e l’immediatezza espressiva avevano priorità e prevalenza sul lavoro di scavo musicale.
Simone Alberghini era nel complesso un Giovanni convincente. Pur non possedendo uno strumento immacolato, il cantante sapeva assecondare il progetto registico, disegnando un Giovanni impetuoso e animalesco, dalla virilità rozza e violenta. Nicola Ulivieri era un Leporello di bella voce, corretto nel canto ma convenzionale. Molto buona la prova di Carmela Remigio, Donna Anna musicalmente ineccepibile ed interprete intensa. Maria Pia Piscitelli, Donna Elvira volitiva e sanguigna, esibiva voce di buona pasta ma faticava nelle zone più alte del pentagramma. Lasciava qualche perplessità il Don Ottavio di Marlin Miller, cantante dotato di discreto strumento e di un certo buon gusto nel porgere ma in difficoltà nel registro acuto. Alterne le prestazioni di Caterina Di Tonno, Zerlina talvolta ingessata e William Corrò, Masetto fin troppo temperamentoso. Solido il Commendatore di Abramo Rosalen.
Paolo Locatelli
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