Recensione – A un decennio dalla riapertura del Teatro La Fenice, possiamo ormai ritenere una tradizione consolidata il concerto con cui Venezia saluta il nuovo anno. Ad accogliere il 2014, Diego Matheuz, direttore principale dell’orchestra, saliva sul podio del “suo” teatro con un programma accattivante che mescolava vette della produzione musicale a brani celebri presso il grande pubblico. In fondo non ci sono molti dubbi sul fatto che il concertone di capodanno sia diventato – ma forse lo è sempre stato – un evento più mondano che culturale, una celebrazione un po’ ruffiana e un po’ popolare di un’identità nazionale che probabilmente neppure esiste ma che è tanto bello rispolverare di tanto in tanto.
La musica però c’era e in buona parte dei casi si trattava di musica di eccellente qualità. Apriva il concerto la Sinfonia n.7 in la maggiore, op. 92 di Beethoven; diciamo subito che la prova del direttore, alle prese con questo pilastro del repertorio, convinceva a metà. Matheuz sapeva trarre dall’orchestra suono di grande bellezza e morbidezza, ineccepibile pulizia e precisione. Lasciavano invece diverse perplessità la trascuratezza del fraseggio, certi squilibri tra le sezioni (archi troppo invadenti) soprattutto nel primo movimento, l’eccessiva compattezza dei forti a scapito della trasparenza. Piaceva l’allegretto, benché un po’ troppo solfeggiato, per cura del colore e delicatezza. Dopo un presto ordinario ma corretto, il quarto movimento dava perfettamente conto delle abilità di Matheuz, capace di alternare lampi di genio (certi guizzi dinamici con gli archi o certe sottolineature), a passaggi di buona routine, formalmente lucida e coerente ma pur sempre routine. Una settima in fin dei conti corretta ma indifferente, troppo rigida e spenta.
La seconda parte di concerto comprendeva la consueta rassegna di arie d’opera e brani orchestrali, ormai celebre presso il grande pubblico grazie alla tradizionale diretta televisiva di Raiuno. Protagonisti, accanto al maestro venezuelano e alle compagini del teatro, il soprano Carmen Giannattasio e il tenore Lawrence Brownlee. Bella voce di lirico pieno lei, capace di affrontare brani del grande repertorio con discreta sicurezza, non molta fantasia e solida professionalità, piccina invece quella di lui, notoriamente avvezzo ad un repertorio leggero, ma al servizio di ottima musicalità e tecnica. La Giannattasio pareva trovarsi meglio in territorio pucciniano, nelle passioni accese del Vissi d’arte, piuttosto che tra le linee melodiche del Bellini di Casta Diva (poco aiutata da un Matheuz troppo trattenuto). Brownlee compilava un’ottima Furtiva lagrima, fraseggiata con cura e ben cantata, mentre naufragava nella Mattinata di Leoncavallo, in debito di volume rispetto all’orchestra.
Ancora alterno Matheuz, capace di un allegro vivace dall’overture del Guglielmo Tell di Rossini brillantissimo e coinvolgente come di un emozionante Va pensiero (con una maiuscola prestazione del coro) ma anche troppo ingessato e rigido nell’accompagnamento al canto. Chiudeva il concerto il tradizionale brindisi dal primo atto di Traviata, tra l’entusiasmo del pubblico in sala e battimani ritmati in odore di Vienna.
Paolo Locatelli
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