Il mondo dell’opera è talmente folle da sconfinare spesso nell’assurdo. Probabilmente non pochi “laici” faticherebbero a comprendere le ragioni che muovono un melomane, magari spingendolo a pellegrinaggi intercontinentali per prendere parte a qualche irrinunciabile evento. Nel caso specifico l’attesa era tutta per il debutto di Gregory Kunde nel Trovatore di Verdi, parte totemica per la vocalità di tenore finalmente affrontata da una delle personalità più peculiari ed affascinanti nel panorama operistico contemporaneo. Fin qui niente di strano, non fosse che il cantante, prossimo ad entrare nella settima decade di vita, si trovava ad impersonare un personaggio poco più che adolescente, vocalmente molto probante (soprattutto se si decide di eseguire la famosa “pira” in tono con tanto di do finale e Kunde – nota per i vociomani più talebani – l’ha fatto) ed esposto agli inevitabili confronti con i grandi e i piccoli del passato.
Alla prova del palco Kunde ha convinto decisamente. Forte di una tecnica prodigiosa, il tenore americano ha risolto la parte con una sicurezza tale da fare invidia a cantanti che all’anagrafe potrebbero essere suoi nipoti. Certo qualcosa mancava, sia in termini di freschezza vocale, sia, com’è ovvio, nella credibilità complessiva della figura, limiti compensati pienamente dalla maturità dell’interprete e dalla solidità del musicista.
Purtroppo tutto il contorno si rivelava al di sotto delle aspettative a cominciare dall’infelice allestimento di Lorenzo Mariani, già passato in Fenice qualche anno fa, per cui valgono le impressioni ricavate allora, se possibile ulteriormente inasprite:
La scenografia, evocativa nelle intenzioni, pacchiana nella sostanza, non solo non riesce a destare nello spettatore una minima parte di quanto si prefiggerebbe di fare ma peggio ha la colpa di essere, laddove non sia velleitaria o confusa, quasi grottesca. Se lo scenario, nella sua grigia neutralità, dominato da una luna tanto grande quanto bruttina, potrebbe ben accomodarsi all’atmosfera notturna del dramma verdiano, davvero non si riesce a comprendere la presenza di generici orpelli che sarebbe inutile elencare. Avrebbe altrimenti giovato una regia che si incaricasse di dirigere solisti e coro con maggiore senso del teatro o perlomeno con un gusto più attuale mentre il regista ripropone l’obsoleto campionario di pose da teatro d’opera d’antan che ormai si vedono solo nelle pellicole in bianco e nero o nelle parodie del teatro d’opera fatte da chi d’opera sa ben poco.
Il resto del cast non lascerà segni indelebili nella memoria dello spettatore minimamente scafato. Buona la prova di Veronica Simeoni per gusto e controllo del canto, pur soffrendo in certi momenti la grandezza della parte. Carmen Giannattasio, dopo una prima prima parte corretta, evidenziava non pochi problemi negli acuti e nell’intonazione nel quarto atto. Artur Ruciński ha una vocalità impressionante per volume, lui lo sa e non fa niente per nasconderlo. Purtroppo è mancato ogni tentativo di modellare il canto in un’espressività che andasse oltre alla concitazione o all’aggressività più truce. Impeccabile la prova del basso Roberto Tagliavini, ottimo Ferrando.
Anche Daniele Rustioni, direttore spesso interessante, non centrava il bersaglio. Il maestro dava dell’opera verdiana una lettura in cui ogni traccia di poesia o di approfondimento circa l’atmosfera, la tinta orchestrale, veniva proditoriamente accantonata in favore di una generica veemenza che, trascorsi i primi minuti, perdeva di mordente e tensione. Ovviamente si tratta di un’impostazione legittima se supportata da un disegno coerente che riesca a mantenere viva la narrazione, nel caso specifico invece la povertà dei colori e la genericità dell’accompagnamento lasciavano la prova in un’indeterminazione che finiva per non convincere.
Eccellente la prova del coro, pur costretto dalla regia a movenze costantemente al limite del caricaturale.
Paolo Locatelli
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