Fare foto è diventata una cosa automatica, un movimento inconscio del nostro corpo che ci porta a far scattare il flash di fotocamere o smartphone. Un salto in avanti di chilometri rispetto alle grosse macchine dei primi del Novecento, in una continua evoluzione di quest’arte così ampia tanto da renderci oggi tutti novelli artisti, grazie alle mille app per modificare e alterare gli scatti.
Ma le immagini che adesso riempiono i social a dismisura sono solo le ombre di quello che fu all’inizio del secolo scorso la fotografia vera e propria. Perché fu all’epoca che nacquero i primi filtri, guardando a questo mondo non come semplice strumento per ritrarre la realtà, bensì un mezzo unico per esprimere un messaggio nuovo, mai visto. E che trovò nell’obiettivo di Man Ray il suo autore più intraprendente.
Ed è proprio il fotografo e artista americano, al secolo Emmanuel Radnitzky, il protagonista dell’omonima mostra fotografia (ma non solo) allestita a Villa Manin dal 13 settembre scorso e prorogata fino al 1° febbraio 2015. Un percorso tra le tappe, le persone, le passioni che hanno segnato una delle personalità più eclettiche del Novecento, nato a Filadelfia nel 1890 e morto a Parigi nel 1976, dopo aver espresso la propria arte con due delle correnti più dinamiche che siano mai esistite: il Dadaismo e il Surrealismo, oltre ad altre influenze come il Sadismo.
Nella prestigiosa cornice della villa che ospitò Napoleone, lo spettatore si trova di fronte un mondo fatto di schizzi abbozzati, caratterizzati da un segno della matita marcato e spesso. Cosa che Man (il soprannome deriva da un gioco di parole e significa “l’uomo razzo”, a significare l’uso che egli fa della luce nelle proprie opere) riuscirà in modo sorprendente a trasferire sulle foto. Creando uno stile unico e inconfondibile: la solarizzazione.
Procedendo per le sale, si osserva l’evoluzione di Radnitzky soprattutto dopo il contatto con l’avanguardia europea, poco conosciuta all’epoca negli Stati Uniti e criticata aspramente dalla stampa. Centrale fu quì l’amicizia con Marcel Duchamp all’epoca della Prima Guerra Mondiale, con cui condivideva l’amore per gli scacchi (rigidi nelle regole ma senza schemi fissi per vincere). Nel ’21 Man Ray arrivò a Parigi, per dare inizio a un lunghissimo periodo di sperimentazioni attraverso mille diverse vie: dalla pittura al cinema, passando dalla fotografia alle installazioni.
Il suo obiettivo principale era stupire, per questo non si risparmiava opere che ancora oggi fanno fatica a essere capite completamente, come i ritratti ritoccati di modelle o foto molto provocatorie quali “La preghiera”, esposta nella sala dedicata al periodo sadista. Scuotere l’animo dello spettatore, farlo contorcere nei ragionamenti fu il vero motore dell’artista e ciò non fece altro che amplificare la sua fama vertiginosamente.
Il percorso si conclude con un omaggio alla sua musa per eccellenza, la moglie Juliet, rimasta al suo fianco fino alla fine e durante tutti i suoi viaggi in giro per l’Europa e l’America. Di lei, infatti, Man Ray fece molti ritratti, ottenendo risultati eccezionali grazie alle tecniche fotografiche da lui stesso introdotte come in “Primat de la matière la pensa e” del ’29, in cui il corpo sembra sciogliersi come liquefatto, colpendo direttamente chi la guarda.
Dopo la mostra dell’anno scorso per celebrare Robert Capa, Villa Manin continua a emozionare il grande pubblico con nomi indelebili della fotografia mondiale. Personaggi che seppero fare della settima arte un caposaldo del XX secolo, ben diverso dal mero uso commerciale che se ne fa oggi, e continuano a suscitare emozioni contrastanti ancora adesso. Sono foto fuori dal tempo, pronte a rivivere davanti allo stupore dei visitatori.
Timothy Dissegna