Recensione – Per chi crede che non esista un teatro passato distinto da quello presente, dal momento che ogni forma d’arte che necessita di uscire dalle pagine di un testo per prendere vita nasce nel momento in cui la si esprime, diventando immediatamente quanto di più attuale ed urgente possibile, uno spettacolo che non si sforzi di comprendere e narrare la contemporaneità diviene un esercizio di archeologia, tutt’al più uno studio sulla filologia della rappresentazione. Euripide, nell’Alcesti ma non solo, cercava su tutte una cosa: la riflessione, la creazione di un dibattito. Il suo teatro chiede al pubblico uno sforzo intellettuale, l’immedesimazione nei protagonisti per analizzarne le problematiche. È evidente che ogni spettatore, relativamente al contesto storico e culturale, abbia un proprio modo di approcciare a tale sfida, mezzi diversi per comprendere sfumature e sottintesi; tali strumenti sono estremamente mutevoli, soprattutto in un epoca tanto avida di novità e ricca di possibilità come quella attuale. Il sacrificio di Alcesti (o Alceste) rimane immutato nei secoli come resta invariato il dubbio circa la liceità dell’accettazione di tale sacrificio da parte di Admeto, quello che cambia è la predisposizione di chi assiste al loro dramma e suo il modo di fare proprie queste problematiche.
Passando da Euripide a Gluck queste considerazioni non perdono validità, tutt’altro, considerando che in ambito operistico negli ultimi decenni sono stati fatti passi da gigante, soprattutto sul versante registico. Se allestendo Alceste, opera del 1767, si sceglie di congelare l’azione in un’esaltazione neoclassica della bellezza formale in quanto tale, ripulendola di ogni macchia umana, sublimando le passioni in pose da teatro antico, esaltando la luce dell’illuminismo a danno delle ombre e dei tormenti più sordi e dolenti, il pubblico potrà farsi un’idea più o meno chiara di cosa Alceste rappresentasse nel contesto in cui nacque, difficilmente ne coglierà la forza ancora pulsante. Che poi Pier Luigi Pizzi sia un nume tutelare della regia operistica è fuori di discussione, che il suo teatro sempre uguale a se stesso possa apparire oggi manierato e fuori tempo massimo è più che un dubbio. L’Alceste in scena al Teatro La Fenice di Venezia potrebbe essere considerato una summa dell’estetica pizziana: staticità, geometrie canoviane, pulizia formale assoluta. E fin qui ogni obiezione rientra nel gusto personale, essendo questa una tipologia di teatro con una gloriosa storia alle spalle e non poche ragioni di interesse. I problemi riguardano tutto ciò che manca, che è parecchio, a cominciare dalla recitazione, minima nei singoli, pressoché assente nel coro. Il luminoso candore di scene e costumi colpisce per piacevolezza estetica ed è estremamente funzionale all’impostazione generale ma esalta il rigore e la freddezza del tutto.
Carmela Remigio, Alceste, si danna l’anima per frangere questa barriera di immobilismo, scavando a fondo nelle proprie risorse d’artista, che non sono poche. Il soprano si impone per la sensibilità d’interprete e la cura per l’espressività che siamo abituati a riconoscerle; la voce non è onnipotente e stenta ad imporsi nell’ottava grave ma è ottimamente piegata in un canto vario e sfumato. Fatica invece Marlin Miller, Admeto con buone idee ma dall’intonazione non sempre a fuoco e spesso affaticato nell’emissione. Molto positive le prove di Giorgio Misseri, Evandro dalla vocalità sicura e timbrata e Zuzana Marková, dolcissima Ismene. Completano degnamente il cast Ludovico Furlani (Eumelo), Anita Teodoro (Aspasia), Armando Gabba (banditore, Oracolo) e Vincenzo Nizzardo (Gran sacerdote d’Apollo e Apollo). Eccellente la prova del coro preparato da Claudio Marino Moretti per bellezza dell’amalgama e varietà di colori.
Sul podio dell’ottima orchestra della Fenice Guillaume Tourniaire sa trovare sonorità limpide, chiedendo ai musicisti un approccio alla materia adeguatamente rispettoso della prassi esecutiva settecentesca, perfettamente aderente per pulizia e nitore al palcoscenico. La narrazione è scorrevole, il sostegno al palcoscenico impeccabile; manca un briciolo di fantasia nella cura dei tantissimi recitativi.
Paolo Locatelli
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