Ero a Leopoli da ormai 2 giorni; una città che si è chiamata Lemberg, Lwow, Lvov e ora prevalentemente nella forma in lingua Ucraina di Lviv. I molti nomi sono il simbolo della multi-culturalità e della grande storia che ha investito questo centro di oltre 800 mila anime, a pochi chilometri sia geograficamente che culturalmente dal confine con la Polonia. Con quest’ultima oltre che dell’antico impero asburgico, ne condivide parte della sua storia conservando molte strutture monumentali, civili e religiose arricchite da fabbricati in stile sovietico e da nuovissime costruzioni. Il tutto appare come un grande tappeto colorato ai miei occhi di viaggiatore che, incuriosito, la osservo dalla collina, dove sorgeva il vecchio Castello. Le giornate, dal tempo bizzarro, erano di festa essendo da poco passata la Pasqua ortodossa ma con la gente ancora riversa nelle strade immersa in una gioia non limpida, dal fondo malinconico. Nello Scalo Ferroviario principale della città c’è uno strano viavai; i “soliti” viaggiatori del periodo di festa o i Leopolesi residenti altrove, che hanno approfittato della sosta pasquale per recarsi a visitare amici e parenti. La maggior parte degli individui che affollano le sale della stazione sono però caratterizzati dall’indossare divise militari, con un’effige gialla e blu (colori ufficiali dell’Ucraina) sul petto e i loro nomi scritti in alfabeto cirillico. Il treno diretto alla capitale Kiev e alle più orientali città di Poltava e Kharkiv attende con tutti i suoi numerosi vagoni sul binario mentre io seguo confuso quella folla, soffermandomi a osservare gli uomini in tuta mimetica che salutano calorosamente parenti e congiunti. In quel momento un ondata di tristezza mi avvolge, pensando istantaneamente di aver visto quelle scene solo attraverso uno schermo televisivo. A bordo del convoglio l’atmosfera è confusa, i soldati giocano a carte con ostentata disinvoltura e io mi ritrovo in una carrozza con cuccette che non avevo mai visto prima. Con estrema difficoltà e attraverso il supporto dei miei compagni di viaggio riesco a estrarre il mio posto letto da un sedile, suscitando una generale ilarità. Una volta sistemato provo a scambiare qualche parola e qualche sorriso, ma l’impresa non è semplice data la diversità della lingua; nonostante tutto la mia voglia di comunicare con gli altri mi ha sempre aiutato in situazioni simili e quindi instauro una bozza di dialogo. Il viaggio continua in pianure di colore giallo baciate dal tramonto, il paesaggio appare monotono ma pieno di oasi boschive e corsi d’acqua. All’interno della carrozza si respira un’aria di apparente allegria grazie anche all’impiegata che distribuisce il tè ai passeggeri. Quando ormai è buio il treno si ferma in una stazione dal nome impronunciabile e numerose famiglie con bambini di etnia rom, invadono la carrozza, armeggiando nella propria cuccetta in preparazione della notte. Una notte che sembra lunga, in una realtà per me totalmente nuova che avevo voglia di scoprire; cado in un sonno leggero e pieno di sogni variegati e quando mi sveglio, nel buio profondo, riesco a leggere a stento, traslitterando l’alfabeto cirillico, il nome della Capitale Kiev. Alla ripartenza, quando ormai i bambini non rumoreggiano più e anche i soldati si riposano dall’interminabile partita a carte, io indugio sul finestrino prima di ricadere in un sonno più profondo. Al mio risveglio c’è l’alba. Il treno è nuovamente fermo in una stazione grande, colpito da folate di vento; si intravedono enormi palazzoni da un lato e una fitta boscaglia dall’altro. La mia solita curiosità mi spinge a cercare di capire dove fossimo; Poltava, mi viene suggerito. Il treno continua la sua corsa verso est decisamente più vuoto; le famiglie con i bambini erano scese. Gli uomini in grigioverde invece si riuniscono nuovamente per riprendere la partita da dove l’avevano lasciata, fra una battuta e l’altra. Dopo qualche ora il convoglio interrompe la sua corsa in aperta campagna e la boscaglia sembra invadere i binari. La locomotiva indugia per quasi un’ora, mentre altri convogli colmi di metalli e merci di tutti i tipi sfrecciano dal lato opposto e io, con un cielo azzurro sterminato davanti, mi sento proiettato in un pianeta diverso. La corsa stanca del treno riprende temporaneamente per poi fermarsi in una piccola stazione, che con il pronto e sempre paziente aiuto dei miei compagni di viaggio riesco a decifra in Lyubatin. Fortunatamente questa ultima sosta è breve e sullo sfondo verde della boscaglia e di azzurro del cielo, iniziano a prendere forma le sagome di grattacieli che si avvicinano sempre di più. Dopo 18 ore il convoglio termina definitivamente il suo percorso in un immenso fabbricato dallo stile imponente, con fregi che ricordano il passato Bolscevico; eravamo giunti nella seconda città per numero di abitanti dell’Ucraina, a circa 60 km dal confine con la Federazione Russa. Eravamo a Kharkiv, o come è chiamata dalla maggior parte dei suoi abitanti in lingua russa, Kharkov.
Andrea Forliano