Recensione – Più che a ieri guarda a ier l’altro il Bruckner di Eliahu Inbal. La cosa non sorprende né, in fin dei conti, ridimensiona il giudizio, dal momento che il passato di cui si fa alfiere l’ottantenne maestro israeliano rappresenta una parte fondamentale della storia dell’interpretazione bruckneriana. Tuttavia la sua Sinfonia n.8 in do minore – lo scorso fine settimana al Teatro La Fenice – non scansa, qua e là, l’impressione di un compiacimento anacronismo che un po’ commuove e un po’ infastidisce.
Perché c’è tanto suono, spesso troppo, per lo più uniforme nelle tinte e nelle intenzioni. È un Bruckner preso estremamente sul serio che vive di certezze granitiche. Imperioso e magniloquente, denso come magma ma cupo. Tutto è ingigantito e sottolineato con l’evidenziatore: la tragicità espressa con violenza, i tratti volgari dello Scherzo marcati con vigore, l’Adagio poi viene restituito con una corposità di suono impressionante ma quasi stucchevole, con gli archi chiamati ad esasperare il vibrato.
Non che il quadro risulti piatto o sbiadito, tutt’altro: le dinamiche sono variegate e meditate, i toni carichi e travolgenti. L’orchestra è costantemente sollecitata a impastare i timbri nella ricerca di un amalgama vischioso, il che comporta un ovvio sacrificio della trasparenza in favore di una compattezza di suono sbalorditiva ma tuttavia incostante, soprattutto nei fortissimi che non escono sempre equilibrati e che, nel finale, tendono a sfuggire al controllo del podio.
Al di là delle considerazioni sull’impostazione generale, non si può dire che il disegno non sia definito e perseguito con perizia. Ciò che ne esce è chiarissimo e dimostra la grande familiarità di Inbal con il repertorio bruckneriano e con questo lavoro in particolare, proposto nella versione del 1887. La sua Ottava emerge sì come un monumento imponente, uno sforzo titanico dalla drammaticità esasperata, ma non di meno evidenzia un’autorità musicale fuori dall’ordinario, non tanto nella fantasia quanto nella capacità di dare coerenza e tensione alla narrazione. Fatta la tara delle perplessità e delle riserve sul gusto e di una certa prevedibilità del disegno, questa Ottava non manca di mestiere e consapevolezza. Le fa difetto, forse, un po’ di poesia.
Merita una lode l’Orchestra del Teatro La Fenice che si comporta molto bene reggendo l’intera prova senza sbavature e assecondando, nei limiti del possibile, le continue sollecitazioni di Inbal a inspessire le sonorità.
Applausi entusiastici ma frettolosi a fine concerto.
Paolo Locatelli
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