Non c’è nessuno sconvolgimento drammaturgico ma una timida rivisitazione di contesto, che pure ha una sua efficacia, nella Cenerentola rossiniana in scena al Teatro Verdi di Trieste. I luoghi della fiaba vengono accantonati per spostare la buona Angelina e le terribili sorellastre in un fatiscente teatro abbandonato dove lei lavora alle caldaie mentre loro giocano da divastre tra gli abiti di scena nei camerini. Don Magnifico ne è il malaugurato gestore, il principe Ramiro il proprietario e Dandini una sorta di suo factotum.
Per il resto, dati di contesto a parte, siamo dalle parti delle Cenerentole di buona tradizione, con i pregi e i difetti che ne conseguono. In fin dei conti piace constatare che i primi prevalgano nettamente sui secondi: la regia curata da Rodula Gaitanou infatti si traduce in una narrazione vivace e frizzante, ben calibrata nei movimenti e nel ritmo. Solisti e masse non danno mai l’impressione di essere abbandonati a loro stessi né si avvertono, in quasi tre ore di spettacolo, momenti di stanca o di incertezza. Le minime riserve riguardano il gusto con cui sono risolti taluni passaggi, eccessivamente caricati di una comicità non elegantissima. Le non bellissime scene di Simon Corder tendono forse a un’eccessiva cupezza ma sono funzionali al disegno registico.
Se la “parte scenica” dello spettacolo, tra alti e qualche basso trascurabile, nel complesso funziona egregiamente, ancor più convincente risulta l’esecuzione musicale.
Josè Maria Lo Monaco è una protagonista eccellente sia per presenza scenica sia per qualità del canto. Oltre alle incontestabili doti vocali – il timbro è di bel colore brunito, l’emissione omogenea e timbrata – ciò che conquista è la capacità di dar vita ad un personaggio di grande dolcezza e fascino.
Molto buona la prova di Leonardo Ferrando, Ramiro. La scomodissima tessitura della parte è dominata con facilità in ogni registro, la linea di canto è pulita ed espressiva. Manca al tenore ancora un po’ di smalto nel registro acuto ma ciononostante la voce, benché piccola di volume, corre e si espande in sala senza problemi.
Piace il Dandini istrionico e brillante di Fabio Previati, artista dotato di una vocalità importante e di uno spiccato senso per il comico.
Nonostante il taglio della seconda aria “Sia qualunque delle figlie”, Vincenzo Nizzardo è un Don Magnifico convincente nel canto e soprattutto nei recitativi, compilati con notevole dovizia di colori ed accenti. Andrebbero forse limati alcuni eccessi nella recitazione.
Filippo Polinelli è poi un Alidoro di lusso, eccellente nella sua grande aria Là del ciel nell’arcano profondo e impeccabile in ogni altro intervento. Tra le sorellastre se la cava meglio Irini Karaianni, Tisbe, giacché Clorinda (Lina Johnson) qualche limite vocale lo palesa.
Sul podio il direttore George Petrou fa un ottimo Rossini. L’Orchestra del Verdi, ridotta nelle dimensioni, restituisce un suono leggero e dettagliatissimo ma mai flebile. Il direttore impone una narrazione tesa e brillante, implacabile nell’incedere ritmico senza mai irrigidirsi ed estremamente varia nelle dinamiche. Le uniche perplessità riguardano alcuni tagli nei recitativi e l’inspiegabile amputazione della seconda aria di Don Magnifico.
Ben si comportano le voci maschili del coro preparato da Fulvio Fogliazza.
Pubblico entusiasta, giustamente.
Paolo Locatelli
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