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Don Giovanni apre la stagione del Teatro Alla Scala

Ce l’ha fatta alla fine monsieur Lissner a fare il colpaccio: portare Robert Carsen, regista di punta nel panorama operistico, al Piermarini in un titolo celeberrimo che fin’ora non aveva osato avvicinare. Si aggiunga l’impressionante “catalogo” di stelle convocate per l’occasione ed ecco creato l’evento. Ed evento è stato. Il pubblico ha salutato trionfalmente il Don Giovanni scaligero tributando calorosissimi appalusi all’intera compagnia, al direttore Barenboim ed anche al regista che è sfuggito all’ormai rituale contestazione riservata alle prime scaligere.

Sicuramente lo spettacolo farà discutere e dividerà il pubblico come puntualmente avviene quando un allestimento si propone di dare una lettura che vada contro le certezze consolidate. Niente di rivoluzionario, sia chiaro, ma sicuramente la lettura di Carsen getta una nuova luce sulla figura del protagonista, non il dissoluto condannato a bruciare all’inferno ma un uomo all’apparenza normale eppure inumano nella capacità di vivere la propria libertà al massimo, un dandy perfettamente consapevole della condotta di vita che porta avanti senza imbarazzo alcuno non curandosi di quale sia la giusta morale. Saranno infatti i moralisti, la buona gente a sprofondare tra le fiamme dell’inferno in luogo del protagonista. In realtà Carsen non intende certo mitizzare Don Giovanni per gli atti che compie, l’eccezionalità del personaggio va invece ricercata nell’assoluta votazione alla libertà che egli persegue. Don Giovanni sceglie di essere libero e pertanto può godere di ogni istante della propria vita senza doversi preoccupare di rispettare le convenzioni, le leggi che invece regolano e soffocano l’esistenza degli altri uomini. Ed è per tale ragione che non ci può essere morte per questo Don Giovanni, la morte è riservata a quanti non sanno vivere. Nello scegliere l’ambientazione dello spettacolo il regista canadese ripropone l’abusato gioco del teatro nel teatro ricreando in palcoscenico il palco del Piermarini stesso. I protagonisti si muovono tra sipari e quinte su questo finto palcoscenico che è facile leggere come metafora della vita o meglio delle finzioni che regolano i rapporti tra esseri umani i quali non sanno rapportarsi gli uni con gli altri senza rinunciare al corteo di maschere che sono abituati, o probabilmente costretti, ad indossare.

La forte idea registica ha trovato perfetta attuazione grazie ad un cast che raccoglie artisti capaci di unire al talento vocale abilità attoriali non comuni. Peter Mattei è un grande Don Giovanni, entusiasta della vita al punto da non curarsi delle miserie altrui, forse frivolo, forse cattivo ma senza l’intenzione di esserlo. Il cantante è eccellente, fraseggia con gusto modulando la bella voce in un’infinità di sfumature. Bryn Terfel, Leporello, compensa alcune mende vocali con lo strabordante carisma che ha sempre dimostrato di possedere. Anna Netrebko (Donna Anna) è la stella del panorama operistico ormai da diversi anni, troppo bella per essere anche brava è stata snobbata dai teatri italiani praticamente fino ad oggi. Brava invece la bella Anna lo è davvero e anche se nell’aria del secondo atto ha mostrato alcuni problemi di gestione dei fiati, si dimostra ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, artista è di rango. Positiva la prova di Barbara Frittoli, Elvira, chiamata a sostituire l’annunciata Elina Garanca. Da rivedere il Don Ottavio di Giuseppe Filanoti spesso in difficoltà nell’intonazione. Anna Prohaskacanta e Štefan Kocán, rispettivamente Zerlina e Masetto, si fanno ricordare più per la presenza scenica che per il canto mentre Kwangchul Youn disegna un Commendatore musicalmente rifinito benchè poco incisivo.

Barenboim dirige il tutto come ci si aspetta che faccia. Ripropone il suo Mozart, un Mozart che guarda al passato, romantico, forse inattuale con quel suono denso ed ipertrofico, estenuante nella scelta dei tempi, con archi languidi ed esplosioni quasi wagneriane. Insomma un Mozart che rinnega le conquiste degli intepreti recenti, da Abbado a Harnoncourt, da Gardiner a Jacobs pescando a piene mani nella poetica dei Klemperer. Ciononostante convince, l’orchestra suona molto bene sostenendo al meglio le voci ed illuminando la musica con suggestive pennellate. Tempi larghi dunque e sonorità morbide e rotonde ma senza perdere la tensione teatrale anzi, trovando un equilibrio perfetto tra le dimensione comica, o meglio buffa, dell’opera e l’atmosfera tragica che già dalla sinfonia si spalanca sulla musica mozartiana.

Paolo Locatelli
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About Paolo Locatelli

Giornalista e critico musicale.

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