Chi conosce la Gina di Cilea? Nessuno. Di fatto dopo la prima esecuzione assoluta (Napoli, 1889) se ne sono perse le tracce, almeno fino agli inizi del nuovo millennio. Poi un paio di sporadiche riprese, un’incisione e di nuovo il silenzio. Ora ci prova il Teatro La Fenice, ove le riscoperte e le incursioni nei meandri più remoti del repertorio stanno diventando una piacevole consuetudine.
A volte dai polverosi scaffali delle cantine operistiche emergono veri e propri gioielli, talora pezzi di onesta bigiotteria, altre volte ancora qualche scarto di poco valore.
Gina, diciamolo subito, non rientra tra i manufatti più preziosi. Vi si può riconoscere la vena musicale del Cilea che verrà, che è immatura ma promettente, si può scorgere qualche spunto interessante, ma davvero si fatica ad apprezzare il lavoro nella sua interezza, soprattutto a causa di un libretto poeticamente modesto e pressoché nullo nella drammaturgia. Quest’opera insomma ha poco da raccontare al nostro 2017, e la sua presenza in cartellone va dunque presa per quello che è: un’affascinante operazione di archeologia musicale.
Non si può pertanto chiedere a Bepi Morassi di cavare il sangue da una rapa. Saggiamente il regista cerca di assecondare la trama senza inventarsi nulla di troppo, risolvendo agilmente la recitazione con ritmo e un’apprezzabile vivacità, ma scivolando in qualche effettaccio di troppo.
Nella tradizione anche le scene del giovane Francesco Cocco che non sono affatto brutte ma forse eccessivamente oleografiche per un contesto, registico e drammaturgico, che si gioverebbe di un minore didascalismo. Metterla eccessivamente sul piano del realismo, con un’opera dalla trama e dai personaggi talmente abbozzati da risultare inconsistenti, può rivelarsi rischioso; avrebbe giovato maggiormente valorizzare le suggestioni bozzettistiche che pure nel lavoro di Cocco, e nei bei costumi di Francesca Maniscalchi, ci sono.
Tra i cantanti spicca la brava Arianna Vendittelli (già apprezzata nel Segreto di Susanna della scorsa stagione): voce brillante che riempie bene la sala e, soprattutto, artista a tutto tondo. Alessandro Scotto di Luzio se la cava bene nei panni di Giulio.
Positive le prove di Armando Gabba, solido Uberto, e di Valeria Girardello, Lilla. La scrittura di Flamberge pare invece troppo grave per la vocalità di Claudio Levantino, che si trova spesso in debito di volume.
Sul podio dell’ottima Orchestra del Teatro La Fenice, Francesco Lanzillotta sostiene con garbo palco e narrazione, senza sbandamenti né disequilibri ma, forse, con qualche eccesso di prudenza.
Si disimpegna senza problemi il coro preparato da Ulisse Trabacchin.
Paolo Locatelli
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