Il fato osservato da due prospettive diverse, lontane tra loro settant’anni. La quinta di Beethoven e il destino che bussa alle porte, la quarta di Čajkovskij in cui il fato incombe sulla vita degli uomini come una spada di Damocle, pronto a sopprimere quella felicità cui gli esseri umani si aggrappano come ad un’illusione collettiva. Due opere sovrapponibili nei punti di partenza ma divergenti negli esiti risolvendosi nel trionfo dell’uomo la prima, licenziata da un Beethoven in forte odore di romanticismo, nell’amara presa d’atto dell’ineluttabilità della sorte la seconda. Erano queste a grandi linee le colonne portanti del concerto in programma giovedì 16 febbraio al Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone che vedeva impegnate l’orchestra dell’omonimo teatro triestino guidata dal sorprendente Ryuichiro Sonoda, chiamato in extremis a sostituire l’ammalato Elio Boncompagni.
Il destino e l’idea che ne ebbero due tra i massimi compositori dell’ottocento dunque. La quinta sinfonia in Do Minore e il titanico ideale dell’uomo che sfida le forze superiori uscendone eroicamente secondo quell’idea di eroe propria della cultura di inizio diciannovesimo secolo, la quarta sinfonia in Fa Minore di Čajkovskij e la presa d’atto della sconfitta o quantomeno del carattere illusorio della vita stessa e la resa all’accettazione del suo essere tale. Il tutto espresso in poco più di un’ora di grande musica suonata da un’orchestra all’altezza della situazione. È stata davvero positiva infatti la prova dell’orchestra del Teatro Verdi di Trieste che ha sfoggiato ottima compattezza (talora a discapito della trasparenza, soprattutto nella quinta), precisione e pulizia con i fiati sugli scudi soprattutto in Čajkovskij dove l’orchestra ha esibito qualità proprie di una compagine sinfonica a tutti gli effetti.
Sorprendente si diceva l’orchestrazione del giapponese Sonoda, bravo e corretto in Beethoven, eccellente in Čajkovskij. Meno travolgente dunque la quinta di Beethoven in cui accanto alle apollinee geometrie ed al suono di leggerezza quasi mozartiana sarebbe piaciuto ascoltare una maggior elasticità ritmica. Allo stesso modo il suono brillante e perfettamente centrato dei momenti di forte o mezzoforte non ha sempre trovato corrispondenza nei passi più soffusi; soprattutto nel secondo movimento sono mancati quello smalto e quella tensione narrativa che avrebbero portato al salto di qualità. Una quinta molto razionale e di buon senso quindi, sarebbe stato oggettivamente ingiusto pretendere di più da un direttore chiamato all’ultimo minuto.
Sonoda è invece sembrato trovarsi meglio con le atmosfere orientaleggianti della quarta di Čajkovskij in cui ha ottenuto sonorità levigate e preziose anche nelle sezioni orchestrali che nella prima parte della serata erano parse più sfuocate. Ha sicuramente giovato la maggiore sollecitazione richiesta dalla partitura agli ottoni, in grande spolvero per l’occasione, perfettamente inquadrati nella lettura estroversa e dagli impasti timbrici quasi jazzistici del maestro giapponese che pur ha sorvegliato perfettamente gli equilibri tra le intemperanze degli stessi e la sottile trama degli archi, precisissimi peraltro. Ha poi contribuito al buon esito della performance la peculiare scrittura del compositore russo che può maggiormente giovarsi, rispetto a un Beethoven, del buon suono orchestrale laddove il tedesco richiede un approfondimento di fraseggio ed un’abilità nella gestione del ritmo di difficilissima inquadratura.
In definitiva una serata se non memorabile, sicuramente molto piacevole, apprezzata dal pubblico non foltissimo presente in sala che ha salutato orchestra e direttore con convinti e prolungati applausi.
Paolo Locatelli
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