Conosco la Gap’s orchestra da quando è nata. Potrei dire d’averla vista crescere, in due anni o più.
Ricordo ancora il primo concerto al matrimonio dei parenti, quando un qualsiasi Gigi D’Alessio si sarebbe potuto materializzare, da un momento all’altro, fra la tastiera e le pantagrueliche tavole imbandite e rovesciarci sopra neomelodico miele partenopeo, o l’Apicella di turno schitarrare tra un brindisi e l’altro, sulle corde d’una strumentale cornucopia di lusso, inneggiando all’ormai vecchio e stanco, falso e incapace dittatore barzellettiere. (Del resto, anche Lui ha iniziato così!).
Allora ancora nessuno ci credeva, quando fra le urla di protesta, dirette verso una società che apparentemente sembra concedere a tutti l’aria necessaria per respirare, ma non comprendere il reale bisogno di qualche doppia molecola di ossigeno di nessuno, qualcuno già riconosceva l’urgenza di un messaggio che non può che ricevere l’ascolto globale, etico, o semplicemente umano (perché è di umanità che si parla, anzi, si canta), tra qualche inconsapevole o troppo ben identificata ascendenza colta e meditata, proprio quella del trapassato cantautorato, quello che agiva, anche solo pensando, e non taceva (si disse che “le parole sono importanti!”, ma chi si ricorda dello schiaffo subìto dalla giornalista al bordo d’una piscina rischia di sentirsi stigmatizzato in un colore troppo tendente al rosso, e incassare anche l’offesa di un eccesso elitario e intellettualistico, la stessa mortificazione che richiama chi scaglia un kitsch o un cheap o un tutto il resto).
In una società che falsifica l’accettazione di tutti, ma in fondo non rifiuta che ogni istanza eterodossa, la Gap’s orchestra cominciava a graffiare la cortina del silenzio e dell’omologazione: cercava di riflettersi in uno specchio sociale che fugge alla luce perché in tutti i modi ripete la rifrazione di un’unica falsa immagine.
Ricordo ancora l’impeccabile giacca elegante, forse ancora con l’etichetta rosa e il numero della lavanderia, sotto il ciuffo perfetto da finto teenager del cantante che, già allora, rivendicava ruggendo la sua bestiale animalità da palcoscenico; dei bermuda coloratissimi, che parevano usciti da una serie tivù californiana, e un cappello di paglia da campimg-in-tour fra i lunghissimi dreads del chitarrista, per cui ci si sarebbe chiesti se non fossero loro ad accordare ogni assolo; un volto curioso, e inesperto, quello del giovane batterista, già virtuoso nei riff, e troppe sbronze ancora da eludere e smaltire fino all’alba; e poi un’inconsapevole esistenza fra i gretti levare del bassista che ha il fare di qualcuno che è messo lì un po’ a caso. No, in realtà allora non c’era, lui, il bassista, non mancino (perché non c’è sempre un McCartney nelle band – ma il nostro è anche più capace ed estroso); ma allora un dottor medico, un ottimo pianista che li ha lasciati protestare da soli.
Così un’altra pianista, senza conservatorismi ma da conservatorio…e lei, una donna, forse troppo donna per essere davvero incazzata e per restare, tra il sudore della calda estate e la custodia di un ukulele che fagocita fragorosi tintinnii, riempita da qualche euro (anche qualche centesimo), posata lungo le strade e nelle piazze di una cieca Italia, da sempre in attesa di un Godot che porta il nome del cambiamento: dalla Liguria alla Campania, con due ballerine quasi improvvisate, l’esperienza busker, “perchè se non ci ascoltano, li andiamo a cercare noi, e se non ci lasciano lo spazio per suonare, ci ritaglieremo noi un nuovo canale per comunicare”; e quest’anno c’hanno provato anche all’estero, spingendosi fino a Monaco. Quattro ragazzi che cercano di modificare le cose (o meglio, le persone, perché sono le persone a definire le cose) attraverso l’arte, con l’amore per l’arte, la musica, ma senza pretese, perché non si parla di poesia, se non di creazione, ma di filosofia sociale.
Finalmente ce l’hanno fatta, questi quattro sognatori, visionari, idealisti, fanatici, ribelli, rivoluzionari, alternativi (si diceva così negli anni Novanta, o no? Anche se a loro non piacerebbe alcuna di queste definizioni perché “noi comunque non siamo d’accordo”. Produttori di coscienza, pensiero e idee. Liberi. Ecco, a loro piacerebbe così). Questi quattro veri ridestati sono arrivati. Hanno prodotto il loro disco in maniera indipendente, fra le quattro mura di una sala prove fabbricata nell’antro di una taverna, anche grazie a tutti noi: questa utopica collaborazione si chiama crowdfunding, e quando hanno scelto di sfruttare attraverso il web la possibilità di finanziare il loro progetto musicale con la piattaforma di Musicraiser ancora pochi conoscevano i vantaggi di una realizzazione che partisse dal basso, dalla fiducia che i singoli decidono di concedere ad un’idea in costruzione.
CACA-CACTUS: sei canzoni e un itinerario all’interno del vortice della realtà. Un Esercito incantato capace di ammaliare le masse destabilizza ogni certezza e ci mostra dall’alto la follia umana con gli occhi allucinati di chi, forse perché lontano dalla reificazione sociale, è più lucido, anche se più irreale; la visione di una Galera, equivalente ad una prigionia insolubile, nella quale siamo costretti a recitare: la consapevolezza di essere gettati in un mondo che non lascia spazio a chi pensa, ma ci imprigiona tra le sbarre di un quotidiano fatto di relazioni alienanti, perché Conformità evidenti ci hanno risucchiato e condizionato rispetto al nostro precipuo approccio esistenziale; solo chi nega ogni cliché, paradossalmente anche quello dell’essere uomo, può allora liberarsi dal mondo nel quale è immerso (Lindamente: a Giovanni Lindo Ferretti); così il grido che nel Sessantotto, dissolvendosi, ha condotto all’assuefazione rispetto ad un comodo modo di vivere, e alla rinuncia al cambiamento, diventa l’urlo della nuova consapevolezza, la coscienza, piena di rabbia, di non vivere più in una società civile e il desiderio di ridare importanza a ciò che davvero questa merita: “riprendiamoci le arance, le olive e il nostro mare”, e se non vorranno ascoltarci ci armeremo de Il forcone. L’unica soluzione possibile, forse, però, è andare via, lontano, dove ancora qualcosa può mutare, o quanto meno carpire la necessità di una metamorfosi. Non importa dove si trovi questo altrove: questo spazio può essere anche mentale (Ora me ne vado).
Eccola, la Gap’s, che riparte “con il tuo piangere”, con la tua consapevolezza, e se di questa dotati, tutti, poi, potrà cambiare tutto. Domenica sera i ragazzi hanno suonato in chiusura durante la serata dedicata alla presentazione di nuovi talenti e nuovi startupper, nel corso dell’evento “Next – La Repubblica delle idee”, tenutosi a Mestre lo scorso weekend e organizzato da Riccardo Luna, giornalista e autore del libro “Cambiamo tutto: Perché quelli che vogliono cambiare il mondo non aspettano. Lo fanno.”
Ed è proprio questo quello che amo di questi ragazzi: la determinazione e l’impegno spesi per un’idea che è molto più universale della produzione di un disco. Ammiro la fede, il credo possa cambiare davvero tutto. Loro davvero hanno voglia di modificare quello che non ha più senso d’essere.
Ciò che invece rimprovererò loro è che non leggeranno mai questo articolo. Lungaggini troppo contorte e poco smart. Ciò che consiglio a voi è di ascoltare il disco, scaricarlo, detestarlo, criticarlo o amarlo. Ma prestarci attenzione. E’ un messaggio. Non è mercificazione di idee, ma libero scambio e condivisione. Per creare un mondo migliore di quello in cui viviamo c’è bisogno di tutti.
(Conosco la Gap’s orchestra da quando è nata.
Potrei dire d’averla vista crescere.
Non potevo non raccontarvi la sua storia).
Ingrid Leschiutta