Era la fine degli anni ’70 e la radio stava per essere sommersa dalla rabbia del movimento punk. Voci volutamente sgraziate su un tappeto di distorsioni e rullanti lanciati a tutta velocità raccontavano il disagio di una generazione che stava eleggendo a sue icone gruppi come Sex Pistols, Clash e Damned. Eppure, secondo alcuni esponenti della scena, c’era qualcosa di stonato in quest’espressione formale ed esibizionistica del rifiuto per la morale tradizionale. La critica rischiava di perdere la propria genuinità, cedendo al sistema e allo strapotere delle major discografiche. Se si volevano diffondere nuovi ideali, era necessario prima di tutto ricorrere a canali mediatici non convenzionali. Con questo spirito gli inglesi Crass hanno dato inizio al cosiddetto “Do It Yourself”: una via tramite la quale princìpi come l’antirazzismo, l’antispecismo e l’antisessismo potevano diffondersi in modo realmente libero e indipendente, grazie alla produzione e gestione autonoma delle proprie composizioni. Successivamente quest’etica si è via via consolidata, abbracciando qualsiasi ambito artistico e, in alcuni casi, anche commerciale.
Il D.I.Y. ha trovato un forte riscontro soprattutto nella scena Anarcho Punk e Hardcore Punk degli anni ‘80 e oggi, per merito di alcune giovani realtà, continua a vivere anche nel Nord-Est Italia. Ne abbiamo parlato con Marco, attuale chitarrista delle band patavine Eat You Alive (fastcore) e Double Me (powerviolence) ed ex bassista dei gruppi giussaghesi Fuser (trashcore) e xPusx (skate punk).
1) Ciao Marco. Cerchiamo di capire un po’ meglio: cosa significa D.I.Y.?
Per quanto mi riguarda, ovvero l’ambito musicale, è il cercare di ottenere il massimo senza dover sottostare alle regole imposte dal mercato capitalista delle major. Qualsiasi gruppo nell’underground deve avere la possibilità di far ascoltare la propria musica e il D.I.Y. te lo permette. È stato il punk a dare il via a questo movimento che con il tempo si è trasformato in un vero e proprio stile di vita.
2) Quanti progetti hai seguito ispirandoti a quest’etica?
Per mia fortuna tutti i gruppi con i quali ho suonato e sto suonando appoggiano pienamente quest’ideologia. Senza l’aiuto di nessuna major, ho avuto la fortuna di far arrivare i dischi dei miei gruppi (materialmente parlando) in Nord America, Sud America e Oceania. Il tutto grazie all’impegno di ragazzi che con le loro etichette indipendenti ci hanno coprodotto e supportato.
3) Com’è nata l’idea di seguire il processo creativo dalla fase di scrittura delle canzoni a quella di produzione?
Uscire dai canoni dello standard quotidiano sarebbe un po’ banale. Personalmente l’ho fatto per darmi uno sfogo. Urlare, non con la voce, ma con uno strumento. Purtroppo nei piccoli paesi la vita è una routine e, grazie ad alcuni amici con interessi comuni, sono venuto a contatto con questa forma di “ribellione”. Per quanto riguarda la composizione delle canzoni lo spunto arriva dai problemi di vita quotidiana, dall’approccio con la società o dalla propria crescita personale. Evidenziare dei problemi, ma cercare di creare delle soluzioni. Non riesco a immaginarmi senza quello che ho fatto e raccolto con la musica in questi anni. Una volta ultimati pezzi, arrangiamenti e registrazioni si passa alla produzione. Le coproduzioni nella scena HC sono di vitale importanza per mantenere a galla un gruppo. Ed è qua che le etichette D.I.Y fanno il loro ingresso: la band propone le proprie canzoni e queste, se interessate, pattuiscono una somma di denaro pari a un numero di copie a prezzo di produzione. Più etichette sono coinvolte e meno dispendioso sarà per il gruppo poter stampare un lavoro. Date le grosse somme di denaro che servono a stampare fisicamente un album, le label D.I.Y. ne aiutano fortemente la realizzazione.
4) Quali sono i tuoi riferimenti musicali?
Non ne ho uno preciso, vado a periodi. Diciamo che tendenzialmente seguo tutta la musica che ruota attorno al Punk. Passo dall’Hardcore old school anni ‘80 allo Skate punk, ma non disdegno il Thrash-metal o lo Skacore. Gruppi da citare ne avrei un sacco. Sicuramente quelli che più mi hanno influenzato fino ad ora sono i NOFX e i Municipal Waste.
5) A tuo avviso, quali sono le principali difficoltà che si incontrano nel portare avanti un progetto musicale del tutto autonomo? E quali invece le soddisfazioni?
Difficoltà ce ne sono sempre. Dalla composizione delle canzoni, cercando di trovare sempre uno spunto nuovo, allo sbattimento per trovare un posto dove suonare. Centri sociali e locali autogestiti sono di fondamentale importanza per tutto l’underground italiano e la scena D.I.Y ruota principalmente attorno a loro. Le soddisfazioni, invece, ci sono ad ogni chiusura di canzone. “Portare a casa” un nuovo pezzo mi fa sentire sempre realizzato. Il fatto poi che la gente le canti ai concerti è segno che i pezzi vengono apprezzati e questo mi fa un grande piacere.
6) Hai mai avuto esperienze di produzione diverse? Se sì, che impressione ti hanno fatto?
Personalmente no, però conosco musicisti che, suonando un genere un po’ più commerciale, si sono buttati in progetti con etichette e agenzie di booking che garantivano serate assicurate in cambio di un pagamento. Un mio amico ha da poco firmato con il suo gruppo per un’etichetta di Bologna, spendendo circa 3000 Euro per ottenere qualche data e la pubblicazione del loro album. A mio avviso, una cosa scandalosa. Con la stessa somma sarebbe possibile organizzare un intero tour in Sud America. E’ assurdo che delle persone si facciano pagare per fare poco o niente.
7) Quali prospettive pensi possano esserci oggi per questo tipo di approccio in Italia? E più precisamente nelle nostre zone (Veneto e Friuli Venezia Giulia)?
L’Italia è agli ultimi posti come lavoro e istruzione. Per quanto riguarda la musica lo è altrettanto. Valorizziamo una cover band perché fa il pieno di gente nel locale nel paese, ma non apprezziamo, anzi evitiamo in tutto e per tutto chi propone la propria musica. Dopotutto siamo un paese che si affida a gente vecchia per portare avanti idee giovani. Per fortuna, da qualche anno a questa parte, i ragazzi si stanno muovendo per dire la loro. Stanno nascendo idee e collettivi interessanti, specialmente a Venezia. Uno di questi è la Venezia HC che nell’ambito underground sta dando spazi a molti per esprimere la propria musica e la propria arte.
8) La scena è solida? Quanto conta la cooperazione con altri gruppi e/o realtà?
Con gli anni ho potuto notare che c’è un sacco di movimento in circolazione. La scena è unita e si cerca di darsi una mano l’un l’altro. Dall’organizzazione di eventi, al fare gruppo per andare a vedere un live. Io purtroppo, abitando in una zona un po’ periferica, spesso devo fare parecchia strada per assistere a qualche concerto, ma i ragazzi di Venezia e Padova sono sempre molto disponibili. La cooperazione è fondamentale. Se dovessero nascere delle rivalità non sarebbe più una scena musicale, ma un insieme di fazioni. Lo spirito HC e Punk, invece, inneggia alla fratellanza e all’amicizia.
9) Hai qualche consiglio per chi desidera avvicinarsi alla musica con questo atteggiamento?
Umiltà e attitudine. Partire dalle fondamenta per costruire qualcosa di solido e non limitarsi a guardare quello che fanno gli altri. Buttarsi appieno in questo mondo, se fatto con anima e cuore, permette di fare grandi cose e conoscere grandi persone.
Massimiliano Drigo