venerdì , 22 Novembre 2024
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La bora, il vento dell’amore tra mito e leggenda

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di Daniele  Rossini

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Chi di voi, cari lettori, non ha sentito parlare almeno una volta della famigerata bora, il forte vento che periodicamente flagella la città di Trieste con le sue violente raffiche? Ebbene, come romano trapiantato in questa stupenda città ormai da quasi vent’anni, posso dirvi che un conto è sentirne parlare, un altro è ricevere sulla propria pelle le stilettate di
questa autentica forza della natura. In effetti c’è il vento e c’è la bora; il vento, diceva Stendhal, è quando
“si è costantemente occupati a tenere stretto il cappello”, la bora è quando “si ha paura di rompersi un braccio”.
Sotto il profilo puramente meteorologico, la bora è un vento continentale,
secco e freddo che, non riuscendo ad oltrepassare i rilievi del Carso, delle Alpi Dinariche e delle Prealpi
Giulie, si incanala nei pochi valichi disponibili (le cosiddette “porte della bora”), acquista un’enorme velocità, a
volte anche superiore ai 200 km/h, e scende con estrema violenza verso l’Adriatico, investendo in pieno la città di Trieste. Una delle sue caratteristiche principali è quella diessere un vento discontinuo che si manifesta con
forti raffiche intervallate da momenti di apparente calma. Ai forestieri spesso la bora fa paura, con il suo
impeto incostante e gli ululati notturni; persino i vicini friulani la temono, tanto che la chiamano “vent sclàf ”, vento slavo,       evocando le masse nomadi e bellicose che per secoli hanno rappresentato una seria minaccia da Est per gli abitanti di queste zone. Alla maggior parte dei triestini invece, nonostante i disagi, questo vento risveglia sensazioni antiche e rafforza un bel senso di appartenenza, sentimento diffuso tra gli abitanti della città e ben rappresentato dalle parole del poeta istriano Fulvio Tomizza che della bora scrisse: “porta ognuno a ritrovare una parte di se stesso rimasta immutata dai giorni dell’infanzia, e nel contempo uguaglia tutti, rendendoli anche solidali fra loro, fedelmente attaccati a questo unico e composto margine di
terra che ogni tanto, con la bora appunto, dichiara la sua assolutezza e la sua irripetibilità”. Comunque, il legame che unisce Trieste e la Bora va al di là del semplice fenomeno naturale ed è
talmente profondo, unico e imprescindibile che ha dato origine a diverse leggende. La più antica parla di una strega che ha la sua dimora nelle caverne del Carso e che, specialmente nella stagione invernale, ama uscire dal proprio rifugio insieme al figlio Borino per scagliarsi, gelida e impetuosa, su qualsiasi cosa incontri davanti a sé. Un’altra storia, ancora più suggestiva, narra di Bora, una giovane ninfa ventosa che abitava nei boschi dell’altopiano carsico e che d’estate soffiava per dare sollievo e refrigerio ai contadini che lavoravano duramente le aspre terre di questi luoghi. Un giorno nefasto giunsero  negli stranieri malvagi ed ignoranti che uccisero il Dio amato da Bora; la ninfa, accecata dal dolore e dalla sete di vendetta, si trasformò in un vento freddo e violento divenendo, da allora, implacabile nemica degli uomini.
Ma la leggenda più bella racconta di quando Eolo, padre dei venti, girava per il 39 mondo con i suoi adorati figli:
tra questi la sua preferita era la giovane e capricciosa Bora. Un bel giorno giunsero su un verdeggiante altopiano che
scendeva ripido verso il mare e Bora si allontanò per andare a giocare con le nuvole. Dopo un po’, incuriosita, entrò in una caverna dove avvenne l’incontro con l’umano eroe Tergesteo, un Argonauta che era appena tornato dall’impresa del “Vello d’Oro”: fu amore a prima vista  due giovani vissero felici in quella grotta sette giorni di travolgente e tempestosa passione. Quando Eolo si accorse che la sua figlia prediletta era sparita, preoccupato decise di andare a
cercarla. Dopo giorni di disperate ricerche finalmente la trovò e, vedendola abbracciata a Tergesteo, si infuriò a tal punto che si avventò contro l’umano scagliandolo con violenza contro le pareti della grotta finchè l’eroe rimase a terra privo di vita. Il padre ordinò a Bora di ripartire ma lei, distrutta dal dolore, non ne volle sapere e scoppiò in un
singhiozzo tanto disperato che ogni lacrima che sgorgava dal suo pianto si trasformava in pietra. Le lacrime furono talmente tante che il verdeggiante suolo dell’altopiano venne completamente ricoperto da un manto pietroso, mentre dal sangue  di Tergesteo nacque il sommaco (1), che da allora inonda di rosso l’autunno carsico. Alla fine Eolo decise di ripartire e di lasciare Bora sul luogo che aveva visto nascere e morire il suo amore. Allora il mare, impietosito, ricoprì il corpo del povero innamorato di conchiglie, stelle marine e verdi alghe.   

Col tempo su di esso si formò una ridente collina sulla quale sarebbe stata fondata una città che, in onore di Tergesteo, sarebbe stata chiamata Tergeste, ora Trieste. Qui ancora oggi Bora regna sovrana perchè il cielo le ha concesso di rivivere ogni anno tre, cinque o sette giorni di splendido amore: sono i giorni in cui Bora soffia impetuosa, “chiara”(2)
fra le braccia del suo amore o “scura”(3) nell’attesa di incontrarlo. Curiosità: secondo alcune interpretazioni, possiamo
riconoscere BORA nel  magnifico dipinto “La Nascita di Venere” del Botticelli dove è raffigurata la dea in tutta la sua
bellezza che avanza leggera fluttuando su una conchiglia mentre viene sospinta e riscaldata dal vento della passione di Zefiro e Aura (o BORA, anche se qualche studioso sostiene si  tratti della ninfa Clori) abbracciati a simboleggiare
l’amore.

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(1) Il sommaco (o sommacco) è un particolare arbusto, molto  resistente, che cresce abbondante e rigoglioso sull’altopiano carsico; le sue foglie, nella stagione autunnale, assumono un caratteristico  ed intenso colore rosso che rende il paesaggio unico e spettacolare.
(2) A Trieste la bora si definisce “chiara” quando soffia in presenza di cielo prevalentemente sereno.
(3) Si definisce “scura” quando è associata a perturbazioni con cielo  coperto o molto nuvoloso.

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