Recensione – Die Zeit, die ist ein sonderbar Ding, il tempo, cosa strana. Quel tempo che divora giorni e giorni come fossero nulla e che poi, tutto a un tratto, si fa sentire ed inizia a pesare, a colare sui visi e sulle tempie. Vengono in mente i versi che von Hofmannsthal mette in bocca alla Marescialla davanti a questo estremo lavoro di Francesco Guccini. Uno sguardo malinconico al passato, un sorriso sereno ma venato d’una tristezza appena accennata. È un Guccini ultima maniera quello de L’ultima Thule, narratore, più scrittore che cantautore, un Guccini che sommerge di parole, di storie, di ricordi. Un addio in pace col mondo rispetto a quello incazzato di Stagioni e forse per questo ancor più commovente.
Non sono più gli anni della contestazione o dell’impegno post sessantottino, neppure quelli dell’amarezza per quello che poteva essere e non è stato ma sono piuttosto gli anni della nostalgia per un tempo che non tornerà. C’è tutto Guccini in questa ultima Thule, il figlio e il padre, il passato e il presente di chi sa di essere oramai nella parte stretta dell’imbuto. C’è la notte onnipresente, metafora quasimodiana della fine di tutto, mescolata con ricordi e frammenti della vita pavanese. C’è il sangue partigiano, la liberazione del giorno d’aprile che si intreccia con la vita di chi sente sul collo il fiato di una guerra atroce. C’è la morte esplicita trattata con ironia nel testamento del pagliaccio che ricorda da vicino il Matto del D’amore, di morte e di altre sciocchezze. C’è un ritratto d’artista (non tra i più ispirati ad onor del vero) e poi c’è il congedo vero e proprio, quel viaggio verso l’estremo nord del corsaro Guccini, verso quell’isola non trovata che ancora resta un – anzi il – miraggio sovrano, l’ultima Thule appunto. Bel disco, da avere.
Paolo Locatelli
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