La guerra è parte incancellabile del destino dell’umanità? È realisticamente possibile il passaggio da un sistema di guerre incessanti e di ingiustizia sociale a un sistema mutuale e pacifico?
Il canto della caduta pone punti interrogativi propri anche del nostro tempo: una risposta, possibile, sta forse fra le pieghe di un’antica storia ladina, il mito dei Fanes, un regno pacifico di donne, distrutto dalla brama di potere e di dominio degli uomini. Uno stormo di corvi e una piccola comunità di bambini-pupazzo superstiti (ispirati alla street art di Herakut), sono i nuovi compagni di scena della straordinaria Marta Cuscunà, in un nuovo viaggio di resistenza.
Il regno di Fanes
Il mito di Fanes è una tradizione popolare dei Ladini, una piccola minoranza etnica (35.000 persone) che vive nelle valli centrali delle Dolomiti.
È un ciclo epico e i suoi contenuti sono del tutto peculiari e diversi dagli altri miti ladini. Il mito di Fanes, infatti, parla della fine del regno pacifico delle donne e l’inizio di una nuova epoca del dominio e della spada.
È il canto nero della caduta nell’orrore della guerra.
La figura principale del racconto è Dolasilla, principessa dei Fanes, costretta da suo padre (chiamato “il falso re”), a diventare una Tjeduya: una guerriera. Ovvero la mano armata del potere.
E sarà proprio questa scelta sciagurata del falso re, ossessionato dal possesso di ricchezze e dal potere sulle terre e sulle genti vicine, a causare la fine del regno matrilineare e del suo popolo.
Il mito racconta che i pochi superstiti sono ancora nascosti nelle viscere della montagna insieme alla loro anziana regina, in attesa che ritorni il tempo d’oro della rinascita. Il tempo d’oro della pace in cui il popolo di Fanes potrà finalmente tornare alla vita.
Guardare indietro per andare avanti
Quando ho iniziato a pensare che il mito di Fanes potesse essere il centro del mio nuovo lavoro teatrale, mi sono scontrata subito con un grande interrogativo: che senso ha, oggi, raccontare a teatro un antico mito ladino? A chi può davvero interessare?
Le risposte che mi sono data, hanno radici in un saggio di antropologia di Riane Eisler: Il calice e la spada.
Riane Eisler indaga le strutture sociali che l’umanità si è data nel corso dei secoli e davanti a una continua epopea di guerre e ingiustizie, apre la riflessione a domande più che mai necessarie: la guerra è parte incancellabile del destino dell’umanità? Cosa ci spinge perennemente alla guerra invece che alla pace? Perché ci cacciamo e perseguitiamo l’uno con l’altro? La brutalità e il dominio dell’uomo sulla donna sono inevitabili? E’ realisticamente possibile il passaggio da un sistema di guerre incessanti e di ingiustizia sociale a un sistema mutuale e pacifico?
Secondo l’antropologa Riane Eisler, le risposte per un futuro migliore potrebbero affondare le radici in quel punto nella preistoria della civiltà europea di cui parla anche l’archeologa lituana Marija Gimbutas, in cui la nostra evoluzione culturale sarebbe stata letteralmente sconvolta. Il canto della caduta, attraverso l’antico mito di Fanes, vuole portare alla luce il racconto perduto di come eravamo, di quell’alternativa sociale auspicabile per il futuro dell’umanità che viene presentata sempre come un’utopia irrealizzabile.
E che invece, forse, è già esistita.
Marta Cuscunà