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Nikolajevka: un discorso per ricordare

dal nostro corrispondente dalla  Germania Simone Callegaro

A volte, leggendo i nostri libri scolastici, ci possiamo rendere conto come la storiografia moderna italiana tratti in maniera eversiva l’argomento della Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista dei propri combattenti. Come se i baroni della storia quasi si vergognassero un po’ del nostro passato nel conflitto. Vengono citati a grandi linee i disastri delle truppe italiane su i vari fronti, senza mai affrontare seriamente gli argomenti. Eppure è la nostra storia, ed è “storia di casa nostra” (giusto per citare l’introduzione de “il sergente”, di Marco Paolini). Nella fatti specie, non viene quasi mai raccontato ciò che accadde, esattamente 70 anni fa, in un piccolo abitato dell’allora Unione Sovietica, oggi Ucraina: Nikolajevka (o Nikolajewka). Un avvenimento che concluse la storica ritirata dell’Armir (l’ARMata Italiana in Russia), ritirata che invece fu una tremenda avanzata all’indietro.
Nel 1941, all’inizio della famosa Operazione Barbarossa, la cecità di Mussolini e del suo entourage aveva voluto contribuire all’inarrestabile avanzata tedesca in Unione Sovietica mandando un piccolo corpo di spedizione, il CSIR (Corpo di Spedizione Italiano in Russia), composto da 3 divisioni di fanteria e un battaglione alpino. L’anno seguente, in seguito all’inaspettata resistenza dell’Armata Rossa, verrà creata la già citata ARMIR, composta da 7 divisioni, di cui 3 alpine. Queste ultime, che nell’immaginario dello stato Maggiore Italiano avrebbero dovuto essere impiegate nel Caucaso, verranno schierate come tappabuchi sul fronte del Don, ovvero su un terreno piatto dove il loro equipaggiamento ed addestramento risultò inutile, se non addirittura un grosso handicap (giusto per dirne una, la scarsa artiglieria a disposizione era progettata per l’uso in montagna, quindi era a tiro curvo). Nel dicembre 1942 iniziò la potente controffensiva dell’Armata Rossa (Operazione Piccolo Saturno), che travolse la linea del Don a nord di Stalingrado, tenuta dagli alleati minori dell’Asse e dagli stessi Tedeschi, trovando però un nocciolo duro negli alpini. In particolare, la divisione Julia fu impegnata in un mese di combattimento su terreno aperto, senza trincee né fortificazioni, senza armi pesanti adeguate e senza una sussistenza decente (il generale Eibl, comandante del XXIV Panzerkorps che agiva nel settore della Julia e che ormai rimasto senza blindati, esclamò “i miei carri armati sono gli alpini italiani”). Ai primi giorni del 1943, lo stato maggiore inoltrò l’ordine di ritirarsi alle 3 divisioni, rimaste isolate (gli unici ondivaghi collegamenti erano quelli radio) e chiuse nella morsa delle truppe sovietiche che ostacolarono il loro ripiegamento, attaccando di continuo e creando sbarramenti in cui annientare i superstiti. Gli stanchi soldati italiani, divisi in due colonne che non riuscivano a riunire a causa della mancanza di comunicazioni, spesso feriti, congelati e disarmati, tartassati dalle malattie e dal gelo (la temperatura oscillava intorno ai 35/40° sotto zero) diedero prova di estremo coraggio nell’illusione di raggiungere rapidamente le linee amiche. La mattina del 26 gennaio, la colonna principale, in cui era confluita la divisione tridentina, reparti sbandati di ogni arma e resti sparsi delle altre divisioni, oltre a migliaia di sbandati e feriti, raggiunse ed attaccò l’abitato di Nikolajevka, dove i sovietici contavano di poter mettere fine al fastidioso serpentone nemico. Dall’alba, alcuni reparti in forze della Tridentina, solo sfiorati dall’uragano di ferro e fuoco di un mese prima e quindi i pochi in grado di poter combattere, lottarono con estremo coraggio per permettere a chi continuava ad affluire sul costone antistante il paese di tornare a casa. All’attacco si unirono un centinaio di tedeschi in armi e alcuni soldati ungheresi. Alle 15 circa, vedendo la pericolosa situazione di stallo e temendo di essere agganciati da dietro dai carri armati russi, il Generale Reverberi, comandate della divisione Tridentina, saltò sull’ultimo semovente tedesco funzionante e guidò alla carica la massa di feriti, sbandati e congelati, che travolgendo le ultime resistenze sovietiche, riuscì infine ad occupare la cittadina e, dopo qualche giorno, non senza ulteriori scaramucce, raggiungere le linee italo-tedesche. C’è da dire che il comando d’armata, nelle retrovie, sbiancò nell’intercettare un messaggio radio russo proveniente da Nikolajevka, in cui si diceva di essere sotto attacco di una divisione italiana in pieno assetto, nella consapevolezza che ormai di divisioni italiane in perfetta efficienza non ve ne fossero più. L’altra colonna, di cui facevano parte i soldati della divisione Cuneense e chissà quanti sbandati, verrà catturata nel vicino centro di Valujki.
Per chi volesse saperne di più, vi è una ricca bibliografia a riguardo uscita dalla penna di molti reduci, come l’indimenticabile “il Sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern, o “Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi. Per una visione più completa e giornalistica, vi è l’interessante lavoro di Alfio Caruso, “Tutti i vivi all’assalto”. Volendo invece leggere le testimonianze dei reduci del battaglione Cividale, dalla partenza per la Russia sino alla ritirata, vi è il bellissimo “Le aquile di Quota Cividale”, di Guido Aviani Fulvio.
Vorrei con questo contribuire a tenere vivo il ricordo di chi è andato incontro ad un triste destino a causa della cecità e della tracotanza altrui, ricordando gli alpini delle divisioni Tridentina, Julia, Cuneense, i soldati delle divisioni di fanteria Vicenza, Ravenna, Cosseria, Sforzesca, le divisioni del CSIR Duca d’Aosta, Torino e Pasubio, il battaglione sciatori Monte Cervino e tutti gli uomini di tutti i reparti aggregati, provenienti da ogni parte del nostro paese. Questi uomini sono stati autori di pagine di storia pregne di altruismo e coraggio, che per buona parte rimarranno ignote non essendo documentate e che, a prescindere, la nostra storiografia tende a lasciare isolate nel mondo della tradizione alpina.

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