Recensione:
“Bisogna stroncare la spensieratezza sul nascere”. Scoppia d’improvviso un palloncino: è una testa legata su una struttura telecomandata dalle forme antropomorfe, forse un epico guerriero senz’armi, nella sua perfetta semplificazione scheletrica cessa di respirare ascendenze Mirò; prima l’intervento carnale, violento di un altro uomo fatto di carne, non solo struttura ossea, elementare, prima dell’annientamento geneticamente alterato questo semi(dis)umano ruotava in un moto circolare uniforme, ma nel vuoto. Poi il silenzio. E la desolazione.
“Può esistere ancora la spensieratezza?”. Echeggia nell’epilogo la voce narrante di una storia che non trova conclusione, né plasma personaggi capaci di fuggire alla loro forma insoluta di esseri senza possibilità di rendersi immortali. E’ il canto finale di un aedo dalle vesti diaboliche, un cavaliere che irride tutta la platea, l’umanità tutta, e illumina con uno specchio rabdomantico gli astanti, figuranti umani per qualche istante nello spettacolo, lontani dalle quinte, dramatis personae anche nella vita.
Prestata per un’ora e mezza nel suo rendersi fugacemente palpabile e vista soltanto da lontano, perché dietro le quinte, questa spensieratezza si fa sostanza nelle risate di un pubblico che non può che ridere di sé: è di esistenza che si è fatto teatro ieri sera al Palamostre di Udine per “Contatto 32 Differenze”con gli equilibri scenici del funambolo Antonio Rezza, tra le trame delle tele di Flavia Mastrella, e le pose plastiche di Ivan Bellavista.
Un ciclo continuo di drammi umani in forma dialogica spingono al riso in una conclusione che circolarmente ci riporta a quel moto iniziale, quello del meccanico telecomandato, e così anche alla giustificazione dell’affermazione iniziale per cui non è possibile essere spensierati; una matematica razionalità cristallizza l’intera vita umana in una frazione ridotta ai minimi termini: “perché siamo sotto un fratto che uccide, si muore per eccesso di semplificazione“. Fratto X, un monito alla rinuncia della comprensione logica per l’accesso ad una metafisica senza limiti, una sinergia performativa in cui il teatro ritrova perfetta commistione tra il corpo e la sua forma, tra parola e azione, tra spazio ed elaborazione scenica. La coppia Rezza e Mastrella, in un’inscindibile presenza tra suggestione creativa e parola teatrale, comprime i personaggi in una dimensione in cui è impossibile agire: un uomo che invoca aiuto, un uomo come tutti, Mario, una sorta di Everyman che non sa dire null’altro che il suo nome; il consueto gesto di un’altra richiesta quotidiana e un uomo che chiede un taxi senza poterlo mai prendere; Rocco e Rita, amanti che si imitano e nell’amore, ma che finiscono per annullarsi l’uno nell’altro, negata loro la comunicazione; un adulto e i suoi fantasmi del passato, e l’ansia del presente che è quella dell’infanzia; e poi uomini che si prestano la voce, in un interloquire dissociato; e sindoni e santi a confronto che beffardi ridono di sé. Ossessioni, voci dipanate in litanie, movimenti che riscoprono il corpo nel suo essere scenografico, teatralità quasi beckettiana nell’assurdità intessuta in una regolarità di forme ideogrammatiche, sdoppiate, triplicate, in tre dimensioni. Forma e sostanza, un’unica condensazione che appare fin troppo reale: è vita.
Ingrid Leschiutta