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The Grudge: la recensione del reboot di Nicolas Pesce, ultimo capitolo della saga nata con  Ju-on

The Grudge: la recensione del reboot di Nicolas Pesce, ultimo capitolo della saga nata con Ju-on

 

Dectective Muldoon in The Grudge

Tutto ebbe origine nel 2000, quando uscì Ju-on, di Takashi Shimizu. Un film a basso budget, destinato al solo mercato home-video, che diede origine a una saga di film dell’orrore, creando il mito di Kayako Saeki. Questo personaggio incarna uno stereotipo del folklore giapponese, l’onryō, una sorta di fantasma, di solito di sesso femminile, che vaga sulla terra in cerca di vendetta. La pellicola ottenne un successo inaspettato, tanto che ne venne fatta nello stesso anno una versione per il cinema, seguita da un sequel, Ju-on 2, e nel 2004 da un remake americano, The Grudge, seguito da diversi altri sequel.

Il reboot di Nicolas Pesce, prodotto da Sam Raimi, potrebbe in realtà anche essere considerato un sequel, ed è l’ultimo capitolo di questa saga, uscito vent’anni dopo l’originale Ju-on, in piena emergenza Coronavirus.

La storia incomincia quando Fiona Landers lascia la sua casa a Tokyo, per trasferirsi in una piccola cittadina della provincia americana, in Pennsylvania, al numero civico 44 di Rayburn Drive. Lei non ne è consapevole, ma si porta dietro la maledizione che aveva dimora nella sua abitazione orientale, che la spinge a massacrare figlia e marito, prima di suicidarsi. Ma la maledizione continua a infestare la casa, colpendo inesorabilmente chiunque vi metta piede.

Il nome del film da cui la saga si è originata, Ju-on, in giapponese significa rancore (grudge in inglese), e allude a un’altra credenza locale, per cui se uno muore in preda a una furia cieca, accumula energia negativa nel luogo ove avviene il fattaccio, che ne rimane contaminato per sempre, dando origine a una maledizione. Una maledizione che si diffonde come un virus, seminando orrore e morti atroci. Tutti i film della serie ruotano attorno a questa credenza popolare giapponese, dimostrando per l’ennesima volta l’inestricabile intreccio tra cinema, cultura e società.

The Grudge: una storia che si dipana su diversi piani temporali

La storia è ambientata tra il 2004 e il 2006, e scorre su tre piani temporali principali. La protagonista del film può essere considerata la detective Muldoon, interpretata dalla brava Andrea Riseborough, che si trova a indagare su un misterioso incidente, nel quale ha perso la vita una donna legata ai terribili eventi in Rayburn Drive.

Parallelamente si possono seguire i tragici fatti accaduti nella casa infestata, che ha ereditato la maledizione di Kayako Saeki, travasatasi nel corpo di Fiona Landers. Assistiamo quindi alla mattanza dei coniugi Peter e Nina Spencer, titolari di un’agenzia immobiliare che cerca di mettere in vendita la casa al numero 44 di Rayburn Drive, che stanno attraversando una crisi coniugale legata alla difficile gravidanza di Nina. I loro problemi troveranno un tragico epilogo.

Il terzo piano temporale descrive i tragici fatti accaduti alla famiglia Matheson, formata da due anziani, che si trovano a dovere affrontare una tragica situazione: lei è una malata terminale, e il suo consorte pensa bene di chiamare un persona esperta in eutanasia per aiutare la moglie ad andarsene senza soffrire. Il demone che possiede la casa ha però un’idea diversa su come gestire la faccenda, che terminerà in un lago di sangue.

Le tre storie si intrecciano, mantenendo sullo sfondo il massacro della famiglia di Fiona Landers, suicidatasi tagliandosi la gola dopo avere barbaramente massacrato la sua famigliola.

Insomma, il film è un’ordalia di mattanze che si intersecano, e seguirle in parallelo non è facile per uno spettatore, anche perché il numero dei personaggi coinvolti è esorbitante.

The Grudge: un reboot non all’altezza dei primi film della saga

L’affollamento di personaggi che si contendono la scena non permette certo di approfondire il loro spessore psicologico, anche perché vengono in genere macellati vivi prima che si possa creare qualche empatia con loro.

Da questo punto di vista, le morti atroci che si susseguono lungo la storia alle volte sembrano fuori luogo, sia perché troppo prevedibili, sia perché spezzano la narrazione, rendendo difficile la comprensione del racconto, che salta continuamente tra un piano temporale e l’altro.

Fiona Sanders, è bene sottolinearlo chiaramente, non è in grado di sostituire con efficacia l’originale Kayako Saeki, diventata ormai una icona del genere horror. Pensare di fare un reboot eliminando quella che è diventata la bandiera della saga, che probabilmente è rimasta scolpita nell’immaginario collettivo occidentale proprio in quanto appartenete a una altra cultura, che utilizza un repertorio iconico differente dal nostro, è forse uno degli errori più grossi fatti nel concepire questa pellicola.

Nel film sono ovviamente presenti delle scene che citano la versione originale, come la comparsa dello spettro ai piedi del letto o la vasca da bagno riempita con acqua scura, da cui emerge l’entità malefica. Lungi dal ricreare l’effetto delle scene originali, in questo reboot diventano dei sbiaditi déjà-vu, destinati a rendere più prevedibili delle scene che dovrebbero invece sorprendere e terrorizzare lo spettatore.

Che dopo un po’ può anche cominciare a sbadigliare, dal momento che seguire l’intreccio delle storie che si intersecano richiede un impegno cognitivo non indifferente. Visto che il film non ripaga lo sforzo, non proponendo nulla di nuovo e originale, è molto probabile che lo spettatore dopo una mezz’oretta cominci a pensare alla lista della spesa.

Peccato, anche perché la recitazione è di buon livello, in particolare quella della protagonista, l’attrice britannica Andrea Riseborough, e quella di Demian Bichir, che interpreta il suo collega, Goodman. Personaggio, quest’ultimo, detto per inciso, al quale si fatica a trovare una funzione narrativa.

Il The Grudge di Nicolas Pesce è l’ennesima testimonianza di quanto la moda di riciclare continuamente i miti cinematografici del passato sia spesso un’operazione destinata a lasciare lo spettatore con l’amaro in bocca, anche se il produttore può assaporare un discreto successo al botteghino.

Tra l’altro Sam Raimi si è anche risparmiato la fatica di aggiungere un numero alla fine del titolo, cosa che creerà qualche problema a chi deve, o vuole, tenere la contabilità dei film di questa saga. Ma forse è meglio così: di questa pellicola tra un mese non si ricorderà più nessuno, e forse non vale la pena distinguere tra i vari sequel, reboot, cross-over, spin-off e chi più ne ha più ne metta.

Film che, inspiegabilmente, continuano a dare spesso molte soddisfazioni economiche ai loro produttori. Misteri del cinema.

Alessandro Marotta

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