Prendiamo “I Capuleti e i Montecchi”, forse il passo più celebre del balletto Romeo e Giulietta di Prokof’ev. Dopo quella manciata di battute spiritate dell’Andante, attacca un Allegro pesante cupo, dominato dall’incedere di ottoni e archi gravi. Su questo tappeto sinistro, violini e clarinetti intonano un motivo che alla seconda misura inciampa su una pausa di croma. Lì, su quella pausa apparentemente insignificante, Yuri Temirkanov indugia un respiro in più, non troppo, e il solfeggio diventa musica.
È tutto così con Temirkanov, nuovamente al Teatro La Fenice per l’apertura della stagione sinfonica: un imprevedibile fluire, un apparente dipingere la frase sul momento, come gli viene.
Per quanto riguarda la Sinfonia del Barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini le cose non cambiano. Nella sezione centrale, la melodia affidata a legni e corno si stira e si accorcia, come un elastico, mentre il crescendo che segue viene stretto progressivamente in modo quasi impercettibile.
Poi certo, se qualcuno si aspetta un Rossini “comme il faut”, filologicamente parlando, si sbaglia. Qui l’orchestra è ampia, il suono pure, però ci sono tanti colori e, soprattutto, quell’estrema libertà nel plasmare la musica che è prerogativa dei più grandi (rubar con garbo è il segreto dell’arte, dice bene Falstaff).
Anche l’Haydn della Sinfonia in re maggiore Hob. I:101 ovviamente non segue alcuno scrupolo filologico, e nessuno se ne aspetterebbe da Temirkanov, fiero superstite di un passato glorioso, ormai demodé e crepuscolare ma tanto, tanto affascinante. Il suo Haydn è brahmsizzato, spintonato verso il tardo romanticismo. L’incedere è placido, i tempi tendenzialmente comodi. C’è in compenso una dovizia di particolari e un gusto per il colore orchestrale assolutamente “russo”, con archi caldi e densi ma mai prevaricanti, e c’è una prodigiosa cantabilità.
Di Prokof’ev si è in parte già detto (Romeo et Juliette: estratti dalle Suite n. 1 e n. 2). Sonorità poderose ma sempre perfettamente bilanciate, estrema libertà nel fraseggiare senza scadere nello stucchevole. Non c’è mai invece, anche nei momenti più accesi, l’impressione che qualcosa sfugga al controllo del podio, né si avvertono sonorità confuse o pesanti. Inoltre qui, a differenza di Rossini e Haydn, lo stile è quello “giusto”.
L’Orchestra della Fenice segue alla perfezione Temirkanov, dimostrandosi capace di eccellente virtuosismo e ricchezza timbrica e soprattutto di saper tradurre il suo gesto imperscrutabile in dettaglio musicale, sfumature, articolazione. Le minime sbavature, in un simile quadro, paiono assolutamente irrilevanti.
Resta da dire del brano che ha, di fatto, aperto concerto e stagione: la Serenata per nove strumenti di Giovanni Salviucci. Qui Yuri Temirkanov non c’entra perché i protagonisti sono i Solisti del Teatro La Fenice ma il risultato non cambia, si vola sempre alto.
Anche se il Nonetto di Salviucci non è mai riuscito a guadagnarsi un posto di rilievo nel repertorio (forse non del tutto ingiustamente), i Solisti della Fenice gli rendono onore, restituendone un’esecuzione di assoluto prestigio, sia per qualità strumentale dei singoli, sia per trasparenza dell’amalgama.
Giova senz’altro alla riuscita del pezzo la differenza timbrica tra il violino luminoso e brillante di Roberto Baraldi e quello più caldo e pastoso di Alessandro Cappelletto, che ben si fondono al velluto della viola di Alfredo Zamarra e del violoncello di Francesco Ferrarini. Meritano di essere citati a uno a uno anche gli altri eccellenti musicisti: Angelo Moretti (flauto), Rossana Calvi (oboe), Vincenzo Paci (clarinetto), Marco Giani (fagotto) e Piergiuseppe Doldi (tromba).
Trionfo sacrosanto.
Paolo Locatelli
[email protected]
© Riproduzione riservata