Oggi siamo con Fabian Korsic, della cantina Korsic Wines, in località Giasbana 11 a San Floriano in Collio. Panorama stupendo, che domina dalla collina su tutto il Friuli Venezia Giulia.
Lo sguardo spazia dal monte Canin fino al Carso, passando per le colline e la pianura friulana, alle spalle le splendide colline della Brda, dove il confine tra due nazioni non esiste, ma è tutto un unico paesaggio.
Ci accoglie Fabian, persona di una disponibilità e una gentilezza unica, col suo saper essere concreto e filosofo.
Se dovessi paragonarlo ad un vino lo paragonerei al suo Collio bianco, un vino per sognatori, ma fatto di concretezza ed estremante legato al suo territorio, che lui ben rappresenta.
Qual’è la storia della tua cantina?
I nostri avi hanno vissuto qui come mezzadri per la locale curia arcivescovile da sempre, la proprietà è stata acquisita nel ’69: sono circa 10 ettari, di cui 6,5 a vigneto. L’azienda si è sostenuta fino al 2010 grazie alla vendita dell’uva ad altre cantine della zona. Nel 2011 abbiamo iniziato imbottigliare con il nostro marchio circa 2500 bottiglie, fino ad arrivare a quest’anno con circa 30.000 bottiglie, che sono praticamente la metà del potenziale dell’azienda. Le varietà prodotte sono oltre la Ribolla, il Tocai friulano e la Malvasia Istriana che vinifichiamo, produciamo pure Pinot grigio e Chardonnay di cui conferiamo le uve ad altre cantine, perché abbiamo deciso di lavorare solo le varietà autoctone. Non perché queste due uve non vengano bene, anzi, ma bisogna avere un po’ il coraggio di tagliare qualche varietà. Il vino è un linguaggio e se questo linguaggio è complicato, come il fatto di avere tante varietà è complicato, allora abbiamo deciso di concentrarci su poche varietà, per avere un messaggio più diretto è chiaro. Oltre a questi tre vini facciamo anche il Collio bianco e un merlot come rosso. Il Collio bianco è il vino che faccio più difficoltà a vendere, ma è il progetto aziendale che dà maggiori soddisfazioni nel medio lungo termine. Noi dal 2011 al 2014 siamo partiti con il progetto Collio bianco, quindi facevamo solo un vino come il grande Edi Keber. Il progetto però non riusciva a decollare, o meglio, non riusciva a dare un’immediata sostenibilità economica, quindi siamo andati verso la vinificazione dei vitigni in purezza, come per esempio la Ribolla e il Tocai. Grazie a quelli siamo riusciti ad avere un certo riscontro economico e questo mi ha insegnato quanto lavoro ci voglia per far sì di riuscire a vendere un solo tipo di vino, come Edi Keber, anche se nel mondo friulano l’uvaggio non è visto di buon occhio. L’uvaggio è visto come fare un vino con quello che è avanzato dalle uve della vendemmia, invece dev’essere l’incontrario, cioè le migliori uve dovrebbero andare sempre nel uvaggio.
Da cosa nasce la tua passione per il mondo vitivinicolo?
E’ qualcosa che è nato piano piano, dato che da sempre sono stato immerso in questo ambiente, però mi ricordo bene un episodio goliardico, di quando io e un mio amico ci siamo ubriacati per la prima volta. Quando era giovane c’era una damigiana con un piccolo tubo che usciva fuori, per far sì che si prendesse il vino da pasto e noi a 4 anni incuriositi da questo liquido che usciva da questo tubicino, abbiamo provato ad assaggiare, abbiamo visto che ci piaceva e ci siamo ubriacati tanto che i nostri genitori ci hanno portato all’ospedale.
Ho capito abbastanza tardi il fatto di voler fare produttore di vino e questo mi ha fatto capire di non avere poi un atteggiamento troppo invasivo nei confronti dei miei figli e dei miei nipoti, perché succedano a me nell’azienda agricola. Mi sembra giusto che si approccino a questo mondo spontaneamente, piuttosto che vi siano indotti. Io da giovane ho avuto una certa imposizione psicologica da parte di mio padre, anche se non era proprio volontaria e questo mi ha portato lontano per un periodo dal mondo del vino. Dopo l’adolescenza ho preso la decisione di voler diventare enologo, questo è anche dovuto ad un episodio che mi è successo in gioventù, il funerale di Miro Gradnik, uno dei primi imbottigliatori, che se non ricordo male è stato il mentore di Edi Keber, morto per un incidente di lavoro. Questo è stato uno di quegli episodi che toccano un po’ la comunità circostante e in qualche maniera ti segnano.
Dopo il funerale di Miro Gradnik, siamo andati in una delle cantine emergenti dell’epoca di nome Movia e mi ricordo che nell’antro di questa cantina era esposto il diploma della scuola agraria di Aleš Kristančič, guardandolo è scattato qualcosa in me e anche se facevo la seconda superiore a Gorizia, in quel momento lì ho deciso di voler cambiare strada. Dopo 2 giorni mio papà mi ha portato alla scuola agraria di Conegliano e praticamente grazie a degli esami integrativi sono riuscito ad accedere alla terza classe.
Qual è la filosofia della cantina?
Io non uso mai la parola filosofia quando devo descrivere l’attività produttiva di una cantina, perché sono un appassionato lettore di filosofi. La filosofia di per sé è un’altra cosa, può essere paragonabile al vino solo perché serve per un momento più felice, ma in generale mi piace parlare di pensiero aziendale, quindi la parola filosofia per me è una perla preziosa e non la uso ma in questo contesto, in questo aspetto ho una mentalità un po’ antica.
Quello che ci guida assieme alla mia famiglia, che per me è molto importante e qua da noi non è così scontato, perché non è una cosa studiata a tavolino, è la semplicità sia in vigna, cercando di essere equilibrati nella gestione della pianta, perché stiamo cercando di diventare biologici, sia nel vino.
Questo ci rappresenta sia dal punto di vista dell’accoglienza, che della presentazione del vino, sia anche nella pubblicità del marchio stesso.
Una volta più informazioni tu avevi, più ne comunicavi, più sembravi intelligente, in un periodo dove non c’erano molte informazioni. Adesso devi semplificare, dato la marea di informazioni che puoi trovare un po’ ovunque e quindi devi cercare di essere semplice e diretto
Io il vino lo vedo come un linguaggio che deve essere comprensibile per questo cerco sempre la semplicità.
Questo si rispecchia nel prodotto, perché un bicchiere dev’essere sì raccontato, però quando un vino ha la sua personalità, bastano poche parole per essere compreso, dev’essere in grado di emozionare anche senza un racconto.
La comunicazione è fondamentale, perché in una zona vinicola non si può sviluppare solo la tua azienda, ma anche quella del tuo vicino, così da far sì che si possa raccontare il proprio territorio.
Sono dell’idea che i panni sporchi vadano lavati in casa, nel senso che parlare bene del mio vicino può portarmi solo vantaggi, piuttosto se con qualcuno ho delle questioni irrisolte preferisco parlarci in privato, senza ledere l’immagine del territorio. Questa è l’idea che mi sono fatto cercando di viaggiare ed esplorare il più possibile il mondo vinicolo.
Siamo un popolo caratterialmente chiuso ma dalla forte identità, in altre parti del mondo come, per esempio, in Borgogna c’è sempre la voglia di fare meglio del proprio vicino, anche perché questo è uno stimolo a migliorarsi, però la loro forte identità porta a essere coesi con la voglia di migliorarsi giorno per giorno. Chi beve il nostro vino non vuole sapere i nostri problemi, ma vuole viversi il momento che gli regala quel bicchiere.
Qual è il prodotto in cui credi di più nella tua azienda?
Il progetto più ambizioso che ho è sicuramente il Collio bianco. Lo produco perché è un vino di tradizione e rappresentativo del territorio. E’ il vino che faccio più fatica a vendere ma è quello che viene apprezzato maggiormente, soprattutto dai consumatori più attenti.
Una zona per diventare grande a livello enologico, deve essere riconosciuta sì dai consumatori più esigenti, ma anche dal grande pubblico. Posso portare l’esempio dello champagne che è conosciuto praticamente da chiunque, tutti sanno cos’è, cioè che è una bollicina, che è un vino importante per grandi momenti felici della vita, però in pochi stanno con che tipo di uve è fatto. Così dovrebbe essere anche per il Collio bianco, non importa con che uve è fatto, ma importa che sia apprezzato e riconosciuto.
All’inizio pensavo di produrre solo Collio bianco o Collio rosso, ma ho dovuto ripiegare sui monovarietali, perché il prodotto ha molta più identità ed è più facilmente vendibile, anche se il Collio rimane il nostro principale progetto.
Come vedi il mondo del vino in questo momento e che posto ha il vino friulano al suo interno?
Io vedo il mercato sia italiano che internazionale molto propensi alle produzioni di nicchia, oggigiorno anche una piccola realtà ha la sua possibilità di emergere.
C’è una propensione alla ricerca dei vini autoctoni, non solo delle nostre zone, ma anche in altre nazioni. Negli ultimi 10-15 anni ho notato che in Italia chi è riuscito a valorizzarsi maggiormente, è chi è riuscito a legare il nome del vino ad un territorio, come per esempio il Lugana o il Trento doc o il Primitivo di Manduria. Spero che questo avvenga anche per il Friulano, spero sia il vino della rinascita, che dia lustro e identità al nostro territorio.
Come vedi te e la tua azienda fra 10 anni?
Io sono un grande sognatore diurno e penso che sognare ad occhi aperti sia una bellissima esperienza perché così sogni due volte.
Secondo me bisogna sognare, perché quando ciò accade, scatta in te il meccanismo di volerlo realizzare, nel quotidiano devi avere un obiettivo e questo obiettivo lo identifichi col sogno.
Io ho avuto la fortuna di essere seguito da una grande realtà commerciale italiana che ha fatto un po’ la fortuna commerciale dell’azienda. Il titolare scambiando due parole con me un giorno mi disse che sarebbe venuto a trovarmi perché così avremmo potuto sognare insieme.
Questo mi ha molto colpito anche perché nell’immaginario collettivo si pensa che i sogni siano per i bambini e che quando si diventa adulti bisogna smettere di sognare, ma in questo caso detto da lui, una persona di 63 anni, mi ha molto colpito nel profondo e ha rafforzato il mio concetto di sogno.
Il mio sogno è diventare autosufficiente dal punto di vista economico, perché se tu non hai la tua indipendenza economica non potrai mai realizzare i tuoi sogni.
I conti con la realtà bisogna sempre farli, per esempio io vorrei fare alcuni tipi di vino particolari, ma poi magari non troverebbero apprezzamento nel mondo commerciale, quindi bisogna sempre trovare una soluzione.
Cosa ne pensi dell’enoturismo in Friuli?
Ammetto che non sono un grande esperto, ma secondo la mia visione lo vedo un po’ difficoltoso, perché prendendo a immagine le grandi nazioni come Sudafrica, Francia, Stati Uniti dove ci sono dei capitali importanti che sono stati investiti da grandi società o fondi industriali, che fanno la loro cantina, assumono poi delle figure addette all’accoglimento e studiano il modo migliore perché questo sia efficiente dal punto di vista economico.
In Friuli è un più difficoltoso, perché nel nostro territorio siamo dei coltivatori diretti, non siamo guidati da grandi fondi economici, quindi non siamo per la maggior parte strutturati per fare ciò e molte volte non abbiamo neanche la possibilità economica per assumere delle persone sempre disponibili per essere a contatto col turista.
Riconosco che però l’enoturismo è un comparto molto importante e ci sono alcune aziende che hanno investito parecchio per essere pronti, come per esempio Schioppetto, Vidussi, Castello di Spessa eccetera e riconosco che è un lavoro molto importante per far conoscere il tuo territorio. Perché chi acquista il tuo vino, poi diventa ambasciatore nel mondo del tuo prodotto.
Devo riconoscere che a livello di infrastrutture non siamo adeguati, perché secondo me ci vorrebbero dei progetti più di filiera, con delle figure professionali che siano in grado di svolgere questa ospitalità per contro terzi.
È giusto che ci siano delle figure addette alla pubblicizzazione, al marketing e all’accoglienza, che possono implementare l’enoturismo per più parti.
Filippo Frongillo
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