martedì , 7 Maggio 2024
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Quando il coronavirus diventa arte

Quando il coronavirus diventa arte

G.W.F. Hegel nella raccolta titolata “Estetica” (Aesthetik, 1820) spiegava: “L’arte dal lato della sua suprema destinazione è e rimane per noi un passato. Con ciò essa ha perduto pure per noi ogni genuina verità e vitalità, ed è relegata nella nostra rappresentazione più di quanto non faccia valere nella realtà la sua necessità di una volta e non assuma il suo posto superiore. Ciò che in noi ora è suscito dalle opere d’arte è, oltre il godimento immediato, anche il nostro giudizio, poiché noi sottoponiamo alla nostra meditazione il contenuto, i mazzi di manifestazione dell’opera d’arte e l’appropriatezza o meno, di entrambi…L’arte ci invia alla meditazione…La spiegazione sta nell’urgenza di un’arte come cultura e dell’adesione dell’arte alla vita.” [1]

Se possiamo dire che l’arte è l’esperienza della bellezza, questa constatazione conduce alle seguenti domante. Qual è il fattore cioè l’elemento che traduce determinate informazioni dei sensi in esperienza della bellezza? E poi, qual è l’elemento comune che rende esperienza della bellezza una determinata visione, una determinata sensazione del tatto, dell’odorato, del gusto? Ed infine, quale elemento conferisce bellezza? Quale criterio ci permette di distinguere l’arte alta dai primi e immaturi tentativi, l’artista dotato da chi è semplicemente privo di talento? Oggi non c’è nessun elemento o criterio esperienziale.

Molti dicono che nell’arte non c’è niente da vedere. E questo perché l’arte diventa iconoclastica. Un’iconoclastia moderna che non consiste più nel distruggere le immagini, ma nel fabbricare immagini, una profusione d’immagini in cui non c’è niente da vedere come disse Jean Baudrillard. «Tutto il dilemma sta in questo: o la simulazione è irreversibile, non vi è un al di là della simulazione, non è neanche più un evento, è la nostra banalità assoluta, una oscenità di tutti i giorni, siamo nel nichilismo definitivo e ci prepariamo a una ripetizione insensata di tutte le forme della nostra cultura in attesa di un altro evento imprevedibile – ma da dove potrebbe venire? Oppure vi è comunque un’arte della simulazione, una qualità ironica che risuscita ogni volta le apparenze del mondo per distruggerle. Altrimenti l’arte si limiterebbe ormai, come fa spesso oggi, ad accanirsi sul proprio cadavere. Non bisogna aggiungere la stessa cosa alla stessa cosa, e cosi via en abîme: questa è la simulazione povera. Bisogna che ogni immagine tolga qualcosa alla realtà del mondo che in ogni immagine qualcosa sparisca, ma senza cedere alla tentazione dell’annientamento, dell’ entropia definitiva, bisogna che la sparizione resti viva – è questo il segreto dell’ arte e della seduzione. Vi è nell’arte – nell’arte contemporanea come pure probabilmente, nell’arte classica – un duplice postulato, dunque una duplice strategia. Una pulsione di annientamento, di cancellazione di tutte le tracce del mondo e della realtà, e una resistenza contraria a tale pulsione. Stando alle parole di Michaux, l’artista è “colui che resiste con tutte le sue forze alla pulsione fondamentale a non lasciare tracce”…» (vedi: Jean Baudrillard Illusione, disillusione, estetiche. Edizione Sintomi, traduzione di Laura Guarino).

La domanda è: viviamo la fine dell’arte? o viviamo la morte della fantasia? Il passaggio in una società dello spettacolo e in una società dell’informazione, ha portato la morte della fantasia, la morte dell’immaginario. La morte (la morte della fantasia) non è un destino oggettivo, ma un appuntamento. Neppure lei può recarvisi, perché è lei questo appuntamento, ossia la congiunzione allusiva dei segni e delle regole che fanno il gioco. La morte è solo un elemento innocente, e questa è l’ironia segreta del racconto, che lo rende diverso da un apologo moralistico o da una banale storia di pulsione di morte, e fa si che lo si consideri un motto di spirito, nella sublimità del piacere”.

Eppure, questi ultimi mesi che viviamo l’ esperienza della pandemia di coronavirus, l’ arte trova la  tematica che collega atre e vita. La pandemia ha dato una nuova ispirazione agli artisti. Cosi gli artisti si avvicinano la nuova realtà, scalpellano i drammatici eventi della pandemia, le crepe della morte, la volontà che sorge lentamente per la vita che vincerà. Scalpellano il desiderio la necessità, e la vera perdita.

E gli artisti al tempo del coronavirus che cosa possono fare? Gli artisti vengono ispirati da icone delle ultime esperienze. L’arte – con gli artisti che descrivono la nuova realtà del virus -, non diventa uno slogan per il coronavirus ma il motto per una speranza che possiamo vivere, nonostante il virus. L’arte non è il miglior sonnifero, e questo perché l’arte è una preparazione.

L’arte non vuole la vita come un’argomentazione, non vuole una vita gravata dalla paura e una vita piena d’inevitabile disperazione, cioè una vita che scivolava sul telaio nero. L’arte non s’identifica come l’angoscia ma si autodefinisce come domanda, perché chiama la vita.

Così artisti come Duyi Han, che vive tra Shanghai e Los Angeles, ha dipinto un affresco in una cappella in campagna dello Hubei, che presenta medici con mascherine specifiche e guanti, che si chiama “Gli angeli vestono di bianco”.

La pittrice Matsuyama Miyaabi ha dipinto l’imposizione della paura con il coronavirus.

Anche il caricaturista He Kun disegna un padre (con mascherina) che tiene il suo bimbo sulla schiena, l’opera si chiama “Save the Child”. L’arte è tutta qui e cerca trovare un tempo della realtà.

Nell’Europa molti artisti vedono il coronavirus come uno shock della vita. L’artista Fake (Pittore olandese) ha dipinto la “Super infermiera” come un inno a tutti gli operatori sanitari di tutto il mondo.

A Barcellona, in Spagna, artista con nome Tvboy dipinte due dottori un uomo e una donna con ali d’angelo. Gli artisti di oggi descrivono la pandemia di coronavirus ildolore, la paura, ma anche la speranza.

 

Anche lo street artist lucchese Random Guy non poteva rimanere inerte di fronte a questa situazione. Ha fatto una metafora del  celebre quadro che Degas dipinse tra il 1875 e ‘76, rielaborato in chiave quanto mai moderna e attuale. Sul tavolo, al posto del bicchiere dell’assenzio, si trova adesso una bottiglia di amuchina mentre la donna seduta al tavolo porta sulla bocca una mascherina. Il suo sguardo, attento e disperato, andava bene allora come va bene oggi. Amuchina e mascherina, il kit perfetto per cercare di difendersi dal coronavirus.

Di Apostolos Apostolou

Scrittore e Prof. di Filosofia

Note:
1. G.W.F.Heggel , 
Estetica
, Feltrinelli, Milano, pag, 889.

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