In occasione dell’inaugurazione della libreria Ubik avvenuta domenica 4 dicembre a Castelfranco Veneto, la cittadina ha avuto l’onore di ospitare lo scrittore Mauro Corona accompagnato dal figlio Matteo, che con il suo romanzo d’esordio Nelle mani dell’uomo corvo ha ottenuto un buon successo di pubblico e critica. Il dibattito condotto con la solita dialettica e con il consueto linguaggio graffiante e incisivo da parte del padre, un vero e proprio “animale da palcoscenico” nelle parole del figlio, è stata un’occasione per approfondire temi fondamentali quali il rapporto uomo-natura, la deriva della società dei consumi, la difficoltà di recuperare una dimensione autentica nei rapporti interpersonali. Si tratta di riflessioni che fanno da filo conduttore delle opere dello scrittore ertano, il quale tiene a precisare non soltanto la diversità di approccio da parte del figlio ad alcune di queste tematiche, ma anche la totale indipendenza del successo del figlio esordiente rispetto ad un prodotto con un brand noto e diffuso nel mondo, quello di Mauro Corona appunto. In altre parole, la sponsorizzazione “paterna” non è stato altro che un trampolino di lancio per un romanzo che, anche nelle parole dell’editor Massimiliano Santarossa, dimostra una sua qualità intrinseca innegabile. A margine di questo incontro ho avuto modo di fare un’intervista ai due scrittori per strappare qualche considerazione circa il ruolo della scrittura e dello scrittore.
- (MATTEO) Chi è Matteo Corona? Illustratore e grafico vs scrittore? Chi vince?
Vince la scrittura, perché io ho cominciato un percorso di immagine che poi ho scoperto essere molto limitato. Un’immagine non può raccontare una storia, oppure può farlo ma occorrono tante immagini. Quindi per una questione di praticità, perché il mio vero interesse non era di quello di creare immagini ma di costruire delle storie, sono passato alle parole. Le parole hanno un grande dono, che è quello di creare delle immagini nella testa delle persone, quindi non vanno a invadere l’intimità di chi osserva un’immagine già pronta, ma suggeriscono l’immagine nella mente. Questa è una cosa che nessun quadro e nessuna illustrazione può fare essendo molto invasivi. Di più, il procedimento che porta alla costruzione di un’immagine è molto meccanico e ripetitivo, mentre con le parole si scatena un processo creativo molto più efficace.
- (MATTEO) Quali altri passioni coltivi oltre alla scrittura? Che valore dai ad esse?
Beh, per esempio, Vanessa, che è la protagonista del romanzo, è un’atleta di ginnastica artistica. Tra le passioni che coltivo, oltre che ad essere un vero e proprio lavoro, c’è quella di istruttore di ginnastica in una palestra a Villorba: mi consegnano i gruppi delle bambine piccole che vanno formate per diventare agoniste. Per cui c’è questa passione che coltivo e che è l’unica che inserito nel romanzo, ma ne ho altre come andare in montagna, camminare.
- (MATTEO): Quindi pratichi ginnastica da quando eri piccolo?
Non da piccolissimo, è una cosa che ho cominciato più tardi. Io a differenza del babbo sfido la gravità senza corde, mi occupo di uno sport che è molto recente, le giravolte su strada. Se sbagli non c’è corda che tenga, lì ti rompi le ossa. Questa è una mia grande passione, tuttora mi sto allenando.
- (MATTEO) Per quale motivo hai scelto come canale espressivo proprio la scrittura per rivolgerti al pubblico?
Quando studiavo all’Accademia e sono arrivato al punto di saper gestire l’immagine, mi sono reso conto che è un processo molto ottuso. Lavori per strati, lo strato superiore non fa che ribadire un po’ meglio quello che hai preparato sotto. Quindi è come se io continuassi a esprimere la stessa cosa trovando formule diverse: cioè diventi ridondante, dici sempre la stessa cosa fin che non arrivi ai dettagli. Se ripenso al mio passato, a me piaceva raccontare qualcosa di più di un’immagine soltanto, per cui è stata una necessità mia quella di cercare un canale espressivo diverso. È stata proprio una questione di praticità.
- (MATTEO) Quasi sicuramente avrai messo in conto, sin dall’inizio del tuo progetto, di dover fare i conti con eventuali critiche. Cosa vorresti replicare a coloro che tentano di infangare il tuo esordio e nutrono pregiudizi nei tuo confronti sostenendo che il tuo successo derivi dal cognome che porti?
La casa editrice non nasconde il fatto di voler utilizzare il cognome per accelerare un processo che dipende comunque esclusivamente dal valore del libro. Io avevo proposto uno pseudonimo, ma non è stata accettata la mia idea perché un prodotto, come un libro, è per metà qualcosa che nasce dalla creatività e per l’altra metà deve essere qualcosa di commercializzabile. Quindi la critica che muovono è di per sé giusta, però non si arriva lontano se non c’è sostanza. Io credo molto in questo libro, mi sono permesso di renderlo vendibile e non mi permetterei mai di vendere alla gente fumo: ci ho messo il cuore, credo in questo progetto e sono contento che arrivi alla gente. Se questo arrivare alla gente viene chiamato “commerciabile” mi sta bene.
- (MATTEO) Ma entriamo nel vivo del tuo romanzo. Come nasce l’ispirazione del romanzo “Nelle mani dell’uomo corvo”? Quanto c’è di te e del tuo vissuto all’interno del libro e quanto della società in cui viviamo?
C’è molto della società in cui viviamo, c’è il tema della violenza sulle donne. Emerge l’idea della donna come figura eroica, che custodisce in sé la facoltà di dare la vita, però si ritrova in una condizione di inferiorità fisica; invece dovrebbe essere il contrario, la donna molto più forte degli uomini, capace di gestirli. Nella nostra società, tuttavia, questo non è possibile, perché tutte queste restrizioni dello stalking hanno anche acutizzato il manifestarsi di episodi di violenza perché l’uomo si sente ancor più alle strette, più inferiore e più esposto. Mi impressionano molto tutti i delitti passionali, proprio perché la natura ha messo la donna in questa difficoltà e dall’altra l’ha responsabilizzata; per cui è una figura eroica quella che sta al centro del mio libro. Ciò che rappresenta l’uomo corvo è tutto il contrario di Vanessa e di questo discorso che stiamo facendo; l’uomo corvo è insicuro, cattivo, violento, incapace di trovare un equilibrio dentro di sé.
- Sin dalle prime battute del tuo libro, si nota uno stile diretto, essenziale, asciutto. Si tratta di una scelta editoriale, come ho potuto leggere in una tua precedente intervista, oppure è uno stile che ti caratterizza a prescindere dai dettami editoriali?
È stata una necessità legata al tipo di racconto; è una narrazione che si basa su quello che succede, sui fatti, non sulla bellezza delle parole con cui viene raccontato. È una storia che ha un’ossatura molto forte, che sta in piedi da sola; per rispettare al massimo la storia e non nasconderla con orpelli stilistici ho voluto asciugare il più possibile. Io venivo da letture dei classici per cui il mio modo di scrivere era estremamente descrittivo. I suggerimenti della casa editrice sono stati quelli di asciugare il mio stile, di eliminare tutte quelle che erano le mie considerazioni personali. L’intimità del lettore va difesa e al lettore va suggerito molto, ma non va raccontato nulla. Questo stile asciutto aderisce alla volontà di dare degli spunti, ma senza arrivare ad essere invadenti.
- (MATTEO) Quali sono i modelli letterari cui ti sei ispirato o che hanno fatto parte della tua cultura personale?
Chuck Palahniuk, James Frey, Stephen King, che si definisce uno scrittore “emotivo”. Con le dovute distanze, perché lui è un colosso e io sono niente, mi sento uno scrittore “emotivo”, che si dedica sia ad indagare la mente delle persone che a suscitare reazioni nel lettore. Per quanto riguarda i modelli italiani ci sono Aldo Nove, Christian Fascella, lo stesso mio editor Massimiliano Santarossa. Sono tutti scrittori che si occupano di storie di uomini e che hanno uno stile asciutto, senza orpelli e da cui ho attinto a piene mani.
- (MAURO) Quando si arriva al tuo livello, ci sono giorni in cui pensi di non avere più nulla da raccontare?
Non è vero; il racconto è infinito. Puoi affacciarti alla finestra o alla porta di un bar e vedi un movimento, una scena che può darti l’idea di fare di tutto. Finché c’è vita, ci sono uomini che si muovono sulla terra c’è materia da raccontare. Bisogna poi saperla rendere interessante dal modo in cui la racconti. Io potrei parlarti di un fiammifero per ore, fare un romanzo, dirti chi ha tagliato quel tronco per fare quel fiammifero, se è morto quello che tagliava il tronco, perché è morto, perché lavorava in una fabbrica di fiammiferi. Tu con il semplice gesto di accenderti una sigaretta con il fiammifero, non sai cosa sta dietro a quel fiammifero. Come diceva Antonio Sabato “finiranno i viaggiatori, non i viaggi”, così io dico finiranno gli uomini non i racconti.
- (MAURO) Può darsi però che finisca la voglia di raccontare?
La voglia di raccontare può finire, chiaramente. Io penso di esagerare già, secondo me ho già finito, però finché mi pagano e vendo bene continuo a fare libri. Ma probabilmente si fa un solo libro e tutto gira attorno a quello. Il problema è anche una furberia di mercato. Io sono vissuto nell’indigenza e nella miseria, ora che posso vendere libri e prendere qualche lira perché dovrei smettere? I miei libri non sono belli, vendono bene. Non mi interessa rimanere nella storia, preferisco rimanere nella geografia che sono più sicuro.
- (MATTEO) Capita a volte che anche uno scrittore agli esordi come te, dopo la prima pubblicazione, dopo aver ottenuto anche un buon successo, provi un senso di difficoltà nel proseguire il suo cammino. Ti rispecchi in questo o lo temi?
A me il primo romanzo piace molto, mi piace come ho condotto la storia e il finale che ho trovato. Ho altre idee che svilupperò sicuramente, stiamo già lavorando ad un nuovo possibile romanzo, che si occuperà di sviscerare i pensieri di una persona messa alle strette, in una situazione limite. Non soffro di questa mancanza di idee, ho ancora un paio di idee secondo me buone, che intendo sviluppare. Lavorerò ad altre cose con la stessa passione che mi ha portato a stendere questo romanzo.
- (MATTEO) Qual è la qualità più importante di uno scrittore a tuo avviso?
Uno scrittore non deve annoiare, non deve parlare della sua esperienza personale o meglio deve renderla una metafora per tutti, in cui tutti devono riconoscersi. Bisognerebbe renderli universali questi messaggi, altrimenti si finisce per narrare fatti personali che non interessano a nessuno.
- (MAURO) Lo scrittore giapponese Murakami Haruki nel suo L’arte di correre scrive: “Per me scrivere consiste nell’arrampicarmi sui monti impervi, scalare pareti rocciose e, al termine di una lunga lotta accanita, giungere in vetta. Vincere o perdere contro me stesso: esistono soltanto queste due possibilità. È un’immagine interiore che ho bene in mente quando scrivo”. Per te questa non è un’immagine interiore ma reale, concreta, giusto? Che relazione esiste per te tra l’attività fisica e la riflessione che sta alla base del processo di scrittura?
È fondamentale questa relazione. Io sono uno di quei scrittori, tra virgolette perché come scrittore sono un fallito, che ha bisogno dell’idea camminando. Robert Walser è un uomo che ha scritto camminando, ha scritto La passeggiata, I temi di Fritz Kocher. Per lui era fondamentale camminare altrimenti non scriveva. Garcia Márquez era un altro di questi scrittori. Nello sforzo mi vengono le idee che poi devo fermare su un taccuino sennò le perdo. Anche correre, camminare, scalare sono attività che mi forniscono materiale per la scrittura; sono uno che ha bisogno della fatica perché si scatenino le idee. Sono d’accordo con le parole dello scrittore giapponese. La fatica è alla base della scrittura, mi fa venire idee che prima non avevo. Sai quante volte devo interrompere, anche ieri andando a spaccare legna di corsa, ho dovuto fermarti e imprimere l’idea sul taccuino, perché se non la fermi subito è sparita, non torna più. A volte sono formidabili queste fulminazioni. Ci vorrebbe un registratore, ma è complicato, dovresti sbobinarlo, io invece mi fermo e annoto le idee: tutti i miei libri sono nati camminando.
- (MAURO) Qual è il tuo pensiero circa l’evoluzione che sta interessando il mondo dell’editoria? Molti si sono posti l’interrogativo: nuove frontiere della narrativa o morte della letteratura? Credi che con l’avvento dell’ e-book, ad esempio, si possa perdere il puro piacere della lettura tradizionale, dello sfogliare manualmente un libro, dell’odore della carta?
Certo c’è questo meccanismo che sta prendendo piede, ma è un po’ lo stesso discorso dello stappare un vino in bottiglia e bere del vino in tetrapack. Ci sarà sempre il cultore del libro da sfogliare, certo chi non soldi, non ha mezzi, non ha tempo preferirà leggere un libro digitale. Io non riuscirei a leggere un libro sullo schermo di un computer; sono vecchio ormai, sono antico, ho bisogno del gesto, dell’odore della carta, di piegare la carta e segnarmi il pensiero. Ma i giovanissimi che non hanno conosciuto questo meccanismo del libro, può darsi si accontentino dello schermo. Io non riuscirei sicuramente. Io voglio il libro, metterlo sotto il cuscino, è un oggetto, una compagnia, guai al mondo se manca. È come stappare una bottiglia, sentire il rumore del tappo, controllarlo. Non morirà il libro, certo le case editrici avranno un calo, una perdita. Se ci saranno tempi di miseria e di crisi, la cultura è una delle prime cose che verranno messe da parte. La letteratura non muore però, perché è raccontarsi la vita, è un appiglio esistenziale. Prima dell’avvento dell’era cristiana non si scriveva nulla, nella Magna Grecia si parlava, si tramandava oralmente. I nostri nonni raccontavano le storie, che costituivano una letteratura verbale, vocale. Ognuno raccontava la storia ingrandendola e aggiungendo dettagli al racconto precedente. La letteratura non avrà mai fine, perché l’uomo ha bisogno di sentirsi raccontare storie.
- (MATTEO) Qual è il tuo rapporto con la tecnologia, sia nella vita di tutti i giorni che nell’ambito professionale? I vari social network, i blog, i forum rientrano nel tuo quotidiano o li consideri un qualcosa di superfluo?
Io ho una pagina Facebook, che uso non tanto per scrivere quello che mi capita durante la giornata, ma per pubblicizzare eventi cui partecipo. Non è un aspetto marginale, è entrato a far parte integrante della mia vita. Per quanto riguarda la tecnica della scrittura , io scrivo a computer: scrivo intere porzioni di testo, poi scopro che quelle venti righe si adattano ad un’altra porzione di testo; col computer è molto facile staccare un intero blocco e metterlo al posto giusto. Ho bisogno assolutamente del mezzo tecnologico, se dovessi scrivere a mano lavorerei in un disordine di fogli, post-it e probabilmente non riuscirei ad arrivare neanche alla fine.
- Per concludere, vorrei salutarvi chiedendovi secondo voi qual è la funzione, il ruolo che ha la letteratura oggi? Da sempre gli si è attribuita una funzione sociale, di insegnamento. Vale ancora?
(Mauro) Qualcosa di questo può essere vero, così come il fatto che letteratura abbia una funzione terapeutica. Però è come per la montagna, che dicono che renda migliori: se uno è coglione rimane tale, non è che andando in montagna migliora. Può tenere compagnia, può aprire delle idee. Non solo la letteratura, ma tutto quello che fanno gli altri e viene reso accessibile può aiutare qualcosa. Io ho cominciato a scolpire quando in tv, in questa vituperata e sciagurata tv, ho visto un programma che raccontava le sculture di Augusto Murer. Non è che si debba delegare tutto alla letteratura per migliorare l’uomo; può aiutare a far passare il tempo, a rendere migliore. Se leggi Delitto e castigo capisci che il male va pagato. La base dell’educazione però sono la famiglia, i buoni esempi. Non è che un criminale legge il Don Chisciotte e diventa migliore. Può aiutare molto, tuttavia, aprire porte, aprire speranze. Ci sono ragazzi che leggono un libro e la loro vita cambia totalmente.
(Matteo) Io non voglio insegnare, penso che il maestro sia quello che ti racconta il finale di un film, quello che ti mette su un binario dicendoti vai da qui a lì. C’ è un detto cinese che recita: Se incontri il maestro sulla strada uccidilo. Secondo me questo, al di là della metafora, è un bel modo di dire scappa dal tuo maestro, perché ti toglie le sorprese della vita. Io mi occupo di intrattenimento e sono contento di farlo, voglio essere semplice senza scadere nel banale. Non voglio arrivare agli intellettualismi, ma solamente suscitare qualcosa di bello nelle persone, che spengono il cervello durante la lettura del libro; voglio farli sprofondare in una dimensione che con la vita reale non c’entra, se poi quello che leggono attiva in loro degli spunti che possono essere d’aiuto anche nella vita reale tanto meglio; ma il mio obiettivo principale è quello di emozionare all’interno della dimensione del libro.
Vito Digiorgio
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