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A Classic Horror Story, la recensione: molto più del classico film dell’orrore

A Classic Horror Story, la recensione: molto più del classico film dell’orrore

A Classic Horror Story

 

All’inizio questo film original Netflix, diretto da Roberto De Feo e Paolo Strippoli, sembra essere veramente quello che il titolo pare suggerire: un assemblaggio di cose già viste. Peraltro fatto molto bene.

La protagonista è una ragazza che affronta un viaggio in carpooling su un camper, per interrompere una gravidanza indesiderata su pressioni della madre. Il veicolo è di un maldestro studente di cinema, che ospita anche un medico e una coppia di giovani.

Durante la notte, mentre attraversa i boschi calabresi, nel tentativo evitare il cadavere di un animale sulla carreggiata, il camper si schianta su un albero. I cinque sfortunati compagni di viaggio si risvegliano il giorno dopo, in una radura al centro della quale c’è una strana casa. Il motore del camper non si accende. Della strada nessuna traccia. Ovviamente non c’è campo: impossibile contattare telefonicamente qualcuno per chiedere soccorso.

Un situazione drammatica e assurda, che peggiora ulteriormente quando due dei sfortunati compagni di viaggio decidono di affrontare l’incognita dei boschi per cercare aiuto: scoprono gli inquietanti segni di presenze ostili nella natura selvaggia.

Anche dal sopralluogo all’interno della strana casa emergono particolari angoscianti, tingendo la storia di elementi metafisici e soprannaturali. Ma la spiegazione dei fatti assurdi e drammatici vissuti dai cinque compagni di viaggio, alcuni dei quali troveranno la morte in circostanze atroci, coglierà di sorpresa anche lo spettatore più smaliziato.

A Classic Horror Story: ben oltre la citazione cinematografica

Come lo stesso studente di cinematografia sottolinea nella pellicola, il film propone una serie di situazioni già viste mille volte al cinema: l’incidente automobilistico nel profondo della natura selvaggia, il piccolo ed eterogeneo gruppo di persone che lotta per sopravvivere in un ambiente ostile, la bizzarra casa isolata nel bel mezzo del nulla, teste di animali mozzate e strani pupazzi nei boschi, figure mascherate pronte a gesti efferati, riti sacrileghi legati a culti dimenticati, solo per citarne qualcuno.

Tutti elementi peraltro assemblati con efficacia, ennesima dimostrazione che, anche con risorse limitate, è possibile costruire una storia avvincente anche ricadendo negli stereotipi, se si ha il mestiere per farlo. Specie se si ha voglia di giocare con le citazioni cinematografiche.

Ma A Classic Horror Story va molto oltre. Diventando una pellicola intrinsecamente metacinematografica, in modo completamente inaspettato, proprio mentre la storia sembra imboccare una strada prevedibile, e quindi perdere di mordente.

Un colpo di reni narrativo altamente apprezzabile, che conferisce a questa riuscita pellicola una marcia in più, permettendole di distinguersi nell’anonimo mare di film senza infamia e senza lode che inonda Netflix (e non solo).

Perché questo film parla anche del rapporto tra cinema horror e spettatore medio, e più in generale della fame abulica che il cittadino – diventato ormai videodipendente e consumatore passivo – ha per le notizie negative e drammatiche, fatto che spesso lo trasforma in un vojeur al limite della psicopatia.

E parla di queste cose in modo avvincente, comunicativamente mille volte più efficace del solito sproloquio autoreferenziale del pensoso pseudo-intellettuale di turno da salotto televisivo. Tanto di cappello.

A Classic Horror Story: inaspettatamente, anche un film di critica sociale

Ma gli elementi di critica sociale presenti in questa pellicola vanno molto oltre la condanna della videodipendenza in generale e di un certo vojeurismo malato in particolare. Questo film infatti ricicla la leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, figure mitiche che la tradizione vuole siano i fondatori di Cosa Nostra, della ‘Ndrangheta e della Camorra. Un leggenda che vorrebbe conferire un’aura di nobiltà ad associazioni criminali che di nobile non hanno proprio niente.

Nella storia essi diventano tre fratelli dalle fattezze mostruose provenienti da un mondo parallelo, fondatori di un culto raccapricciante. Senza volere spoilerare nel dettaglio questa pellicola, la critica che viene fatta al mondo della mafia va ben oltre l’accostamento del nome dei tre (presunti) nobili cavalieri, fondatori delle corrispettive associazioni criminali, a quello di entità malefiche provenienti da dimensioni oscure.

Perché il mafioso descritto nel film è una persona apparentemente comune, non è possibile distinguerlo da un normale cittadino. Ed è una persona che obbedisce al potere in modo supino, eseguendo senza battere ciglio le atrocità più efferate, anche quando fa parte delle istituzioni. E gode nel vedere le sofferenze altrui.

Insomma, A Classic Horror Story inaspettatamente prosegue nella tradizione di molti film classici dell’orrore, a partire da quelli di Romero e di Carpenter, metafore dei mali della società del loro tempo.

A Classic Horror Story: la dimostrazione pratica che con pochi mezzi si può fare un ottimo film, capace sia di intrattenere che di far riflettere

Al di là di qualche passaggio forse un po’ troppo prevedibile, che all’inizio della storia sembra fare vacillare la pellicola in direzione del déjà vu a ripetizione, nel complesso stiamo parlando di un prodotto ben riuscito, con una storia che nel complesso rende bene, dotata di un buon ritmo, di un ottima fotografia e con un buon livello di recitazione. Spicca soprattutto la giovane protagonista, Matilda Lutz. Brava davvero.

Il film dà il meglio di sé nella seconda parte, quando improvvisamente il racconto sterza in direzioni inaspettate, con modalità originali e coinvolgenti.

Una pellicola che, ancora una volta, dimostra come non servono affatto mezzi ingenti per creare una pellicola riuscita. Gli elementi essenziali sono una buona storia e buoni attori, diretti con mestiere e creatività. A Classic Horror Story li possiede tutti.

Da vedere. Assolutamente.

Alessandro Marotta

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