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Accanto alle mimose anche le fiamme: Scintille al Teatro Pasolini di Cervignano.

Scintille. Piccoli frammenti di materia umana incandescente illuminano fiammeggiando il cielo di New York City in una qualunque giornata della primavera del 1911 nei pressi di Washington Square: particelle ardenti che s’irraggiano dall’alto degli ultimi piani dell’enorme palazzo della factory della Shirtwaist Company, come stelle cadenti che lumeggiano in pieno giorno. Scintille. Piccoli frammenti di vita che si spengono nel silenzio di un qualunque pomeriggio di lavoro, in cui nessuna di queste minime schegge d’esistenza, operose ruote dentate votate soltanto alla macchina salariale, ha deciso di rinunciare alla propria paga giornaliera per scioperare in nome dei propri diritti e in nome della giustizia. Scintille è uno scorcio scenico, un incendio fatto di piccole fiammelle che irradiano una luce su una tragedia consumatasi oltreoceano alle 16.40, il 25 marzo di quell’anno, quando alla fabbrica di camicie 146 operaie giovanissime persero la vita per le negligenze di chi non assicurava loro condizioni di sicurezza sul luogo di lavoro: un rogo che, come una gabbia fatta di sbarre di fiamma, forse scaturito dalle lampade a gas poste su ogni fila delle macchine delle cucitrici, le attanagliò imprigionandole come topi in trappola, facendo prendere fuoco ai tessuti ammucchiati in enormi cumuli negli stanzoni e impedendo loro di raggiungere le uscite sbarrate dai proprietari, nel timore potessero uscire prima dell’orario stabilito.Le donne perirono in parte nel tentativo di raggiungere il tetto sulle scale logorate dalle fiamme che non furono in grado di reggerne il peso, e in parte lanciandosi dalle finestre, cercando disperatamente di trovare la salvezza.

A pochi giorni dalla Festa della Donna il Teatro Pasolini di Cervignano ha scelto di portare in scena uno spettacolo che racconta drammaticamente un evento che la celebrazione dell’8 marzo porta con sé ma che, spesso,tradisce, limitandosi ad una tradizione che non svela gli ostacoli che la sua affermazione ha dovuto affrontare, basti pensare soltanto al fatto che ci sono voluti più di cento anni per avere l’elenco ufficiale delle vittime di quel tragico evento: nomi, cognomi e nazionalità. Laura Curino, con un intenso e accorato monologo che esonda correnti piene di passione che scorrono poderose in ogni singola battuta, rievoca i momenti della giornata in cui scoppiò l’incendio attraverso l’esperienza di una lavoratrice dell’opificio, madre di due figlie operaie che, come lei, erano emigrate in America per avere un’occupazione e mantenere il capofamiglia a casa, senza lavoro, rincorrendo il sogno dell’overseas. Una cronistoria che si carica nel corso dello spettacolo della maestria affabulatoria dell’unica protagonista della scena che, grazie alla scelta dell’autrice Laura Scigliano, svela le speranze e le delusioni di un quotidiano faticoso, pieno di difficoltà e rinunce, ma squarciato ogni tanto dalla freschezza e dalle gioie di una gioventù femminile che non osa sognare, perché soggiogata dal peso di una vita completamente dedita alla produzione industriale.

La tragicità dell’evento viene così svincolata dal processo di musealizzazione che ha trasformato l’8 marzo in un vuoto contenitore in cui includere indistintamente ogni lotta e conquista del mondo in rosa, senza restituirne le coordinate essenziali.Lo spettacolo lascia lo spettatore incapace anche solo d’applaudire: la forza patetica e drammatica delle parole della Curino sono come un devastante pugno allo stomaco che lascia un’amarezza colma di consapevolezza tra le lacrime che, nelle scene finali, infiammano come scintille gli occhi dell’intera platea.Una vera e propria crocifissione laica e commovente ci conduce inevitabilmente al pianto: delle camicie bianche, appese alle strutture metalliche, evocano le macchine da cucire della factory con le quali l’attrice durante l’intera narrazione sembra volere creare un rapporto quasi umano nella desolazione della vita, e diventano emblema funereo di quelle vite anonime,spezzate ingiustamente, ma resuscitate nel ricordo, fra le ombre che gli indumenti proiettano sul fondale che pare sospirare mestamente le stesse parole che la voce narrante della mamma, che ha perso le figlie quel tremendo 25 marzo 1911, pronuncia infine: ”non dimenticatevi di Rosa e di Lucia”. La memoria forse ci aiuterà a meditare anche sulla logica produttiva di un oggi in cui compriamo inconsapevolmente senza chiederci che cosa si celi davvero dietro quegli oggetti di cui amiamo riempirci.

Dietro l’8 marzo, oltre alle mimose, ci sono anche le fiamme. Quelle scintille.

Ingrid Leschiutta

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