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Candyman: la recensione del film horror di Nia DaCosta

Candyman: la recensione del film horror di Nia DaCosta

Candyman

 

Anthony McCoy è un artista che vive a Chicago assieme alla sua ragazza, Brianna Cartwright, che dirige una galleria d’arte moderna. Il giovane uomo è in conclamata crisi creativa, e di fatto viene mantenuto dalla compagna, ma gli giunge un aiuto inaspettato.

Il fratello di Brianna, infatti, una sera si ferma a casa della coppia assieme al proprio compagno, e racconta quella che sembra essere una leggenda metropolitana: negli anni novanta una giovane donna, Helen Lyle, giunge nel quartiere per compiere delle ricerche sull’esistenza di Candyman, mitico uomo nero della zona, presunto autore di innumerevoli delitti.

Helen tuttavia perde il senno, rapisce un bambino che cerca di uccidere gettandolo nel fuoco, ma il piccolo viene salvato in extremis, mentre lei si getta tra le fiamme, muorendo in modo atroce.

Anthony rimane turbato dal racconto, e comincia a fare delle ricerche, indagando in ciò che rimane del vecchio quartiere di Cabrini-Green, dove incontra William Burke, il proprietario di una lavanderia che gli racconta ulteriori dettagli della storia raccapricciante.

In particolare, secondo William, chiunque nomini per cinque volte consecutive il nome “Candyman” di fatto evoca il suo spirito, venendo da questi massacrato sul posto senza pietà. Anthony e Brianna hanno poi la pessima idea di provare il rituale, ma sul momento sembra non acacdere niente.

Il protagonista rimane comunque affascinato dal racconto, e concepisce un’opera da esso ispirata, che viene esposta nella galleria d’arte della compagna, dove tuttavia riceve critiche per nulla lusinghiere.

Gli eventi cominciano subito a precipitare. I primi a morire macellati sono un collega di Brianna e una sua fiamma del momento, che evocano per gioco Candyman davanti all’opera di Anthony. Nel frattempo il protagonista comincia a subire una mutazione fisica, che comincia da una mano, punta da un’ape mentre si aggira tra gli edifici fatiscenti di Cabrini-Green.

Candyman: un horror nel quale trionfa il mito del doppio

In questo film si scontrano frontalmente forze contrapposte e inconciliabili. Il primo contrasto che emerge con forza è quello urbano. Da un lato ci sono i vetusti edifici fatiscenti e polverosi della vecchia Cabrini-Green, pieni di graffiti, murales e orrori dimenticati.

Dall’altra i moderni e luccicanti grattacieli costruiti sull’antico quartiere, che un rapido processo di gentrificazione avrebbe dovuto riscattare, lanciandolo verso un radioso futuro di prosperità e benessere. Aprendo quindi un secondo contrasto: tra la povertà materiale del passato e la ricchezza del presente.

C’è poi lo scontro frontale tra il mondo dei bianchi e quello dei neri, all’inizio del film sottotraccia, ma che cresce inesorabilmente durante il racconto, diventandone alla fine la chiave di lettura principale.

Lo stesso protagonista comincia poi a sdoppiarsi, perché la sua identità comincia a essere lentamente ma inesorabilmente contaminata da quella di Candyman, cambiamento che verso la fine del film traspare chiaramente anche a livello fisico, dato che metà del suo corpo comincia a marcire.

Il fatto poi che Candyman possa essere evocato solo davanti a uno specchio è emblematico della sua natura e gli stessi titoli di testa sono “specchiati”…

Candyman: un film semplice e lineare che si lascia guardare volentieri

Il tema centrale della pellicola è il rapporto conflittuale tra bianchi e gente di colore. I protagonisti sono di colore, i vecchi (e poveri) abitanti di Cabrini-Green sono di colore, ma i moderni galleristi (quelli di successo) sono bianchi, così come le forze dell’ordine, dominate dal suprematismo bianco.

Anthony è in crisi di ispirazione, la sua compagna fatica a trovare una posizione di successo e di fatto è subalterna al suo socio bianco, ma è la comparsa di Candyman e rimescolare le carte. Di fatto questo personaggio mitico (e di colore) fornisce una nuova spinta creativa ad Anthony, avviandolo verso il successo, grazie agli efferati omicidi che ben presto avvengono attorno alle sue opere.

La stessa Brianna, grazie a questi tragici fatti, ha la possibilità di collaborare con espositori molto famosi. In altre parole, il successo della gente di colore può avvenire solo tramite la mattanza dei bianchi, che sono i cattivi di turno.

Candyman stesso, alla fine, si rivela essere niente altro che la personificazione di tutte i soprusi subiti dalla comunità di colore per colpa dei bianchi. In esso vivono molti personaggi del passato, ingiustamente massacrati dalla comunità WASP, razzista, sadica e sfruttatrice. E vogliono vendetta.

Il film è molto curato, anche dal punto di vista visivo. In particolare, gli ambienti del nuovo quartiere sono ricercati nei minimi dettagli, ma la loro perfezione formale non impedisce all’orrore di abbattersi sui suoi abitanti.

La storia scorre accattivante, partendo da un punto di vista neutro, dove tutto sembra essere perfetto, impeccabile: i protagonisti sono una giovane coppia di artisti di colore apparentemente lanciati verso il successo, il fratello di lei è gay, il suo compagno è un bianco. Tutto perfettamente politically-correct.

Ma sotto l’apparenza si nasconde l’orrore, che cresce piano piano lungo tutta la storia, fino a esplodere nel finale. Che forse è il punto debole del film, perché si cade nei luoghi comuni più stucchevoli. Bianchi tutti cattivi contro uomini di colore tutti vittime. E la vendetta, unica dimensione esistenziale possibile per questi ultimi, trionfa. Vabbè.

Comunque il film nel suo complesso funziona bene. E di fatto è una apprezzabile continuazione del primo Candyman, del 1992, di Candy Rose, la cui storia è la base di partenza del film.

In attesa del prossimo sequel…

Alessandro Marotta

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