UNA STORIA DI ACQUA E DI GUERRA
«Fai attenzione: oggi la corrente va verso Sud», lo avvisa una sentinella, ma a fare attenzione, a farne sempre molta, il pescatore Nam Chul-woo ci è abituato. Del resto, non puoi permetterti distrazioni quando abiti in un villaggio della Corea del Nord e ti muovi ogni giorno sulla linea di confine. Confine d’acqua, nel caso di Nam, ed è proprio l’acqua a tradirlo: una delle reti, infatti, si aggroviglia attorno all’elica della sua piccola barca, il motore si blocca e la corrente che «va verso Sud» trascina lentamente (inesorabilmente) il povero Nam in zona nemica…
Si apre così Il prigioniero coreano, attesissimo ritorno di Kim Ki-duk alla narrazione politica. Un dramma che sviluppa e moltiplica il tema del doppio, così com’è doppia la Corea, raccontando intensamente una grande storia collettiva attraverso la storia (l’innocenza) di un singolo individuo. Riuscirà Nam, dopo pressanti interrogatori, a convincere le forze di sicurezza sudcoreane di non essere una spia? Ma soprattutto: riuscirà Nam, dopo il proprio faticoso rilascio, a convincere il potere nordcoreano della propria integrità? È rimasto ancora quello che era, cioè un bravo cittadino devoto, o l’infezione del capitalismo («Più forte è la luce, più grande è l’ombra») lo ha contaminato per sempre?
Lontanissimo dalle tinte forti dell’Isola o di Moebius, Kim Ki-duk parla del presente, parla di una nazione divisa e in perenne stato di guerra, utilizzando – ovviamente a modo suo – la grammatica del thriller. Un autentico thriller dell’anima che la Tucker Film porterà nei cinema italiani il 12 aprile e che trova nell’interpretazione di Ryoo Seung-bum (The Berlin File) tutta la potenza espressiva di cui ha bisogno.
Mi sento più sudcoreano o più coreano? Mi sento, semplicemente, coreano. (…) Il mondo, magari, lo scopre adesso, ma per noi coreani la divisione è una ferita che sanguina da 70 anni. Mio papà ha combattuto in guerra, io sono nato quand’era già finita, però ho fatto il militare e, nell’esercito, mi spiegavano ogni giorno che il mio nemico si chiamava Corea del Nord. (…) Con Il prigioniero coreano ho voluto mostrare un paradosso: guardate come sono simili Nord e Sud. “Là” c’è la dittatura, “qui” la violenza ideologica. E non si tollera che un povero pescatore del Nord, finito per caso fuor d’acqua, voglia ritornarsene a casa. (…) Non si può demonizzare un intero popolo. Il Nord non è solo la Dinastia dei Kim: la gente viene prima. (…) Con tuo fratello e tua sorella magari non ti parli da anni, avete litigato da matti, però sono tuo fratello e tua sorella: chi se ne frega di tre generazioni di Kim? La Corea del Nord non è chi comanda: è il suo popolo, il nostro popolo. Non confondiamola con i suoi dittatori.
Kim Ki-duk (da un’intervista di Angelo Aquaro per la Repubblica)
38° PARALLELO – Una cronologia
(1945) La Seconda guerra mondiale, appena terminata, segna la sconfitta del Giappone e segna anche la fine del suo lungo dominio sulla Corea (35 anni). La penisola viene divisa in due aree di occupazione (russa a Nord, americana a Sud) all’altezza del 38° parallelo.
(1948) Sud: Syngman Rhee viene eletto presidente della Repubblica di Corea. Nord: sorge la Repubblica Democratica Popolare di Corea, retta da un governo comunista presieduto da Kim Il-sung.
(1950-1953) Guerra di Corea.
(1950) Cinque divisioni dell’esercito del Nord, organizzato e rifornito dall’Urss, oltrepassano la frontiera. L’esercito del Sud, mal addestrato e scarsamente equipaggiato, viene rapidamente sconfitto e Seoul viene occupata.
(1951) Dopo un intero anno di ostilità che coinvolgono, sulle opposte barricate, l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti, l’Onu e, infine, la Cina, il presidente Truman apre le trattative con la Corea del Nord. I colloqui di pace iniziano il 10 luglio.
(1953) La fine dei negoziati sancisce il ritorno alla situazione che precedeva il conflitto: la guerra di Corea termina, di fatto, senza vincitori né vinti.
(1954) Si tenta di organizzare una conferenza internazionale per risolvere definitivamente la questione coreana: i lavori si fermano già al secondo giorno… Da allora, nulla è cambiato nei rapporti tra le due Coree.
IL REGISTA
Tacciato in patria di essere un visionario e osannato, invece, nel vecchio continente, Kim Ki-duk sembra appunto aver trovato in Europa quell’America che ancora tarda ad accoglierlo. Distribuite in Italia solo di recente, dal 2003 per l’esattezza, le opere del regista coreano si distinguono per la ricorrenza di tematiche ed elementi duri, mostrati allo spettatore in maniera fredda e quasi naturale. Parliamo di una violenza che, a differenza di tanto cinema contemporaneo, non appare mai fine a se stessa ma, piuttosto, inglobata all’interno di un quadro più grande ed elevato che è quello dell’analisi dell’animo umano.
Nato nel 1960 a Bonghwa, piccolo villaggio della Corea del Sud, a nove anni si trasferisce a Seoul, dove frequenta una scuola di avviamento professionale al settore agricolo. Abbandonati gli studi per problemi familiari si arruola, all’età di vent’anni, nell’esercito. Parentesi altrettanto importante è quella che lo vede avvicinarsi alla religione. L’arte però, altra passione coltivata negli anni, lo trascina violentemente fuori dal suo passato, portandolo a intraprendere un viaggio nel vecchio continente dal sapore bohemien per poi ritornare in Corea nel 1992.
Trascorsi quasi tre anni scrivendo sceneggiature, Kim accetta di cimentarsi nella regia pur non avendo mai avuto esperienza di set. La sua quarta opera, L’isola (2000), rappresenta l’apice di questa prima parte della carriera. La pellicola, infatti, oltre ad essere presentata a Venezia e al Sundance, condensa quell’idea di cinema basata sull’astrazione e sulla quasi totale assenza di un contesto dominante per le storie messe in scena. Nel 2001, invece, realizza Bad Guy, presentato l’anno successivo al Far East Film Festival di Udine, nel quale passato e presente si mescolano e fondono in modo tale da far perdere il concetto stesso di realtà nei meandri della storia.
È il 2003 l’anno della cosiddetta maturità artistica che in Kim trova forma ed espressione in Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, pellicola che si discosta dalla durezza delle precedenti ma che, allo stesso tempo, contiene un forte equilibrio visivo e narrativo, tanto da consacrare definitivamente il suo autore in tutta Europa. L’anno successivo realizza La Samaritana, film che riporta a galla forti tematiche come la prostituzione e che gli vale l’Orso d’argento a Berlino per la regia.
Autore volitivo e in continua eruzione, Kim nello stesso anno porta in scena Ferro 3, anch’esso energicamente legato alle tematiche giovanili tanto da diventarne in un certo qual modo summa artistica e personale. Il film non tarda ad essere apprezzato, ricevendo il Leone d’argento a Venezia nel 2004. Nei due anni successivi realizza L’arco (2005) e Time (2006), pellicole che in maniera diametralmente opposta analizzano la profondità dell’amore. Negli anni successivi si susseguono i film Soffio (2007), Dream (2008) e Amen (2011). Dopo un periodo di depressione (raccontato in Arirang), Kim Ki-duk torna a Venezia nel 2012 (vincendo il Leone d’Oro con Pietà) e poi, ancora, nel 2013 con Moebius.