Light of my Life è un film lento e intimistico, basato sul rapporto tra padre e figlia. Quanto accade nella storia narrata è funzionale a concentrare l’attenzione dello spettatore sulla stretta relazione tra la preadolescente Rag e suo padre, del quale non ci è dato sapere il nome, bene interpretati dalla giovane Anna Pniowsky e da Casey Afflect.
La scena iniziale è ambientata dentro una tenda, nella quale un padre racconta una storia a sua figlia. Una scena molto lunga, che bene introduce il film, facendoci capire i suoi tratti essenziali: una narrazione molto lenta ma bene interpretata e ricca di suggestioni, focalizzata sui due protagonisti.
Un film post-apocalittico, ma lo sguardo è su Rag e suo padre
Solo successivamente apprendiamo che i due si muovono cautamente in una distopia post-apocalittica, dove le donne sono state quasi del tutto eliminate da un morbo misterioso, e nella quale un’umanità invecchiata, morente e abbruttita trascina una esistenza alla quale è difficile trovare un senso.
Un mondo ostile, popolato da maschi alienati, nel quale il protagonista deve continuamente preoccuparsi del fatto che nessuno capisca che il suo giovane compagno di viaggio è in realtà una ragazzina. Per questo motivo Rag ha i capelli tagliati molto corti e indossa vestiti larghi, privi di ogni riferimento femminile.
Poco ci è dato sapere della misteriosa epidemia che ha flagellato l’umanità, così come del passato dei due protagonisti, del quale ci viene fornito qualche flashback di molti anni indietro, risalenti a quando Rag era appena nata e sua madre era stata colpita dal morbo. Brevi sguardi su un passato lontano, che tuttavia non ci forniscono nessuna informazione utile per capire quanto effettivamente successo nel mondo, e ai due protagonisti, dopo la morte della madre di Rag. Solo qualche accenno allo stato emotivo del padre, travolto dalla tragicità degli eventi, sui quali non ha nessun controllo.
Il film è avaro di informazioni su come la società si sia evoluta dopo l’epidemia. Tutto quello che sappiamo è che ci sono dei centri dove vengono forniti generi di prima necessità, e che dovrebbero esistere dei bunker dove le ultime donne vengono tenute rinchiuse.
Il mondo nel quale si muovono i due protagonisti è scarsamente popolato e intrinsecamente ostile. Rag e suo padre cercano di stare alla larga dai centri abitati, spostandosi nei boschi e vivendo in una tenda. Quando si fermano in una abitazione, devono scappare o battersi per sopravvivere, sempre minacciati da piccoli gruppi di maschi predatori.
Il film di fatto porta ai massimi livelli il tradizionale conflitto tra cultura e natura, dove la prima è ormai ridotta al perimetro della piccola famiglia formata da Rag e suo padre, mentre tutto ciò che è a essa esterno è potenzialmente pericoloso. I due protagonisti vivono una condizione di perenne incertezza, ovunque si trovino, sia nei boschi apparentemente deserti, che nei semi-spopolati centri abitati e nelle inquietanti case isolate.
Una scelta che ovviamente mette in rilievo il rapporto padre-figlia, unico elemento positivo percepibile durante gran parte del film. Il genitore è molto protettivo nei confronti della figlia, e, nonostante la situazione non certo idilliaca, si sforza di conservare la sua umanità e di trasmetterla a Rag, cercando di prepararla alla pubertà e alle sue trasformazioni, prossime a venire. La giovane figlia è infatti una figura quasi androgina, pronta però a sbocciare in una giovane donna.
Una film femminista?
Difficile non pensare tuttavia al rapporto padre-figlia come una metafora di quello tra i due sessi. La scena iniziale è da questo punto di vista illuminante. Il padre nella tenda dice alla figlia che la storia che le vuole raccontare parla di una volpe femmina e del suo compagno, ma a un certo punto Rag fa notare al suo genitore che in realtà il discorso è concentrato sul maschio. Una palese allusione all’incapacità maschile di comprendere e parlare del mondo femminile.
E sono proprio le donne, alla fine, le vere protagoniste del film. Anche quando non ci sono. Perché è impossibile non notarne la mancanza. Ed è lo stesso protagonista a spiegare alla figlia che l’alienazione dei maschi è riconducibile alla mancanza delle donne, che è all’origine della mancanza di equilibrio nel mondo dove si muovono.
Anche tra i due protagonisti la figura che alla fine emerge è quella di Rag. Il film può essere anche visto come un racconto di formazione, che vede la ragazzina conquistarsi lentamente una posizione di rilievo, mentre il padre perde progressivamente la capacità di proteggerla e guidarla, crollando psicologicamente e fisicamente sotto l’incalzare di eventi drammatici che non riesce più a fronteggiare da solo.
Un processo graduale che trionfa nello splendido e inaspettato finale, che vede i ruoli della scena iniziale completamente invertiti: è Rag a raccontare una sua storia, breve e toccante, al padre. Poche, sentite parole, capaci però di gettare una luce di speranza in un mondo dove tutto sembra essere perduto. Alla fine, la salvezza viene dal mondo femminile. Quello maschile ha fallito su tutta la linea, anche nella sua accezione più positiva rappresentata nella pellicola, costituita dal ruolo paterno. E probabilmente non è per caso che non ci è dato conoscere il nome del protagonista maschile.
Un storia non originale, ma che vale la pena vedere
Va detto che non è la prima volta che viene utilizzata una ambientazione post-apocalittica per concentrare l’attenzione dello spettatore sul rapporto tra genitori e figli. Basti pensare a The Road, di John Hillcoat, del 2009, dove però erano un padre e un figlio che dovevano lottare per sopravvivere. Oppure al più recente Bird Box, di Susanne Bier, del 2018, nel quale è invece una donna che alla fine riuscirà a salvare suo figlio e un’altra bambina.
Anche A Quiet Place – Un posto tranquillo, di John Krasinski, del 2018, utilizza lo stesso artificio narrativo, descrivendo la vita dell’intera famiglia Abbott, formata da padre, madre, due figli e una figlia, costretta a battersi contro degli invasori alieni, asserragliati in una fattoria isolata. Anche l’idea di un mondo dove non è più possibile riprodursi non è originale: basta pensare a I Figli degli Uomini, di Alfonso Cuaron, del 2006, dove l’infertilità ha colpito il genere umano.
Eppure è piacevole lasciarsi trasportare dalla lenta narrazione di Light of my Life. Merito di una recitazione di alto livello, di una fotografia eccellente e di un uso sapiente delle inquadrature, ricche di campi lunghi, e del montaggio, che sottolineano la potenza della natura nella quale i due protagonisti si muovono.
Un film sottrattivo, dove accade molto poco, capace però di trasmettere forti emozioni. Una pellicola a basso budget, priva di particolari effetti speciali, lontana dai ritmi forsennati del cinema di cassetta. E forse proprio per questo vale la pena gustarsela, regalandoci due ore di tranquilla visione al cinema.
Alessandro Marotta