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Parasite – recensione del film di Bong Joon Ho

Parasite – recensione del film di Bong Joon Ho

Parasite è un film molto complesso, anche se costruito a partire da elementi molto semplici, tra loro contrastanti. Viene messa in scena la contrapposizione tra due famiglie appartenenti a classi sociali diverse. Entrambe sono formate da padre, madre, una figlia e un figlio. Ma la differenza in fatto di disponibilità economiche e di tenore di vita è abissale.

Le due realtà vengono in contatto perché al figlio della famiglia povera viene offerta la possibilità di essere assunto da quella ricca. Ricorrendo a una serie di stratagemmi, riuscirà a fare impiegare anche tutti i propri familiari, costringendo a una improbabile convivenza i due gruppi sociali, che incarnano valori e aspettative che si riveleranno essere incompatibili.

La prima parte del film è basata sui meccanismi della commedia, anche se la differenza culturale con gli stereotipi dell’occidente è notevole, e può rendere poco leggibile la pellicola a chi non sappia levarsi i suoi filtri culturali.

Nella seconda parte esplode il dramma, e il film diventa un thriller, con elementi splatter che probabilmente non dispiacerebbero a Tarantino. Anche nella struttura del film è quindi rilevabile un forte contrasto tra le sue parti, che lo rende difficilmente classificabile in un genere preciso.

Bong Joon Ho

Il ritorno della lotta di classe sul grande schermo

La contrapposizione tra le due famiglie mette in scena lo scontro di classe. I ricchi contro i poveri, in una lotta senza esclusione di colpi. Due mondi contrapposti, bene rappresentati anche dalle case dove vivono le due famiglie.

I ricchi vivono in un villone circondato da un alto muro di cinta, costruito su una collina e dotato di un ampio e curatissimo giardino, la cui vista può essere goduta dall’interno dell’abitazione, grazie a un’ampia vetrata. Gli interni della villa sono luminosi, lindi e meravigliosamente progettati, nella loro essenziale funzionalità.

I poveri vivono in un lercio seminterrato, nella città bassa, intasato da chincaglierie di ogni tipo. L’unica cosa che è possibile vedere attraverso le piccole finestre del tugurio è un lurido vicolo, dove spesso gli ubriachi si fermano a urinare.

La differenza tra i due mondi è sottolineata dal fatto che la villa sorge su un’altura, e per raggiungere la sua spelonca la famiglia povera è costretta a scendere un’infinita serie di gradini. Una efficace metafora della discesa nella scala sociale, per raggiungere la posizione che compete ai poveri, nella quale sono destinati a trascinare la loro incerta esistenza.

Ma nel film viene anche messa in scena la lotta per la sopravvivenza tra i poveri, e ancora una volta è la dimensione verticale la metafora della differenza tra i ceti. Nei sotterranei della villa c’è infatti un bunker antiatomico, nel quale si nasconde un segreto, sconosciuto anche ai ricchi proprietari, che costituirà l’innesco per il dramma finale.

I ricchi vengono dipinti come intrinsecamente ingenui e facilmente raggirabili, perché vivono in un vacuo mondo dorato, dove percepire i problemi di chi non ha i soldi per un pasto decente è di fatto inconcepibile. Un mondo sfarzoso, nullafacente, ipocrita, bacchettone, nel quale regna l’apparenza e l’uso degli stupefacenti non è disdegnato.

I poveri sono invece resi scaltri dalla necessità di battersi per la sopravvivenza, fino a essere pronti a pugnalare nella schiena i propri simili pur di assicurarsi la pagnotta. Una realtà feroce, dove ci si abbruttisce, e con gli anni si perde la capacità di sognare e di progettare il proprio futuro, inchiodati dalla necessità di pensare alla mera sopravvivenza quotidiana.

Temi universali, ma visti con il filtro di una cultura diversa da quella occidentale

La differenza tra le classi sociali è un tema universale, facilmente comprensibile da tutti. Molte affermazioni fatte nella famiglia povera rappresentata nel film potrebbero essere pronunciate in un qualsiasi contesto sociale occidentale. La globalizzazione ha reso universale il problema della creazione di enormi disparità tra i ricchi e i poveri, così come la difficoltà a trovare lavori qualificati anche per chi possiede un titolo di studio, rendendo spesso necessaria per i giovani l’emigrazione.

Altri temi ormai universali riscontrabili nel film sono l’urbanizzazione selvaggia e le problematiche ambientali a essa connessa, che si determinano quando le strutture urbanistiche costruite dall’uomo non sono più in grado di gestire piogge sempre più abbondanti. Problematiche che nella pellicola diventano drammatiche per i poveri, costretti a vivere in slum sovraffollati, ma sono molto meno sentite dai ricchi, asserragliati nei loro fortilizi ipertecnologici, appollaiati in cima alle colline.

Ma quando si scende nei rapporti interpersonali tra i personaggi che si muovono nel film, la differenza culturale con il mondo occidentale diventa rilevante. Non tenerne conto può diventare un problema per chi vuole gustare la visione di questa pellicola, sia nella prima parte del film, molto leggera e a tratti spassosa, che nella seconda, drammatica e carica di tensioni. Il rischio è che tutto si diluisca in una specie di commedia dell’assurdo, quasi surreale in certi momenti.

C’è speranza per l’umanità?

Il film comincia come una piacevole e scanzonata commedia, ma termina drammaticamente. Per i poveri, l’unica speranza è sognare a occhi aperti, salvo poi dovere affrontare una realtà drammatica, nella quale l’unica dimensione esistenziale possibile è la mera sopravvivenza.

L’incomunicabilità tra i ricchi e i poveri è totale, e l’unico risultato di una forzata convivenza tra le due classi, normalmente separate anche fisicamente, è lo scontro frontale. Per sottolineare l’abisso che separa le due realtà sociali, il regista utilizza una curiosa ma efficace metafora: l’odore che i ricchi percepiscono nei poveri, un lezzo che ammorba le loro case nei bassifondi e dal quale non riescono a liberarsi, per quanto perdano tempo a lavarsi.

Ma l’incomunicabilità esiste anche tra i poveri, che alla fine possono solo scannarsi, per accaparrarsi le briciole che i ricchi decidono di lasciare loro.

Alla fine della visione lo spettatore può lecitamente chiedersi chi siano i parassiti indicati dal titolo. I ricchi che sfruttano i poveri, ignorandone le necessità e le legittime aspirazioni? O i poveri, che pur di sopravvivere sono capaci di ogni furberia e tradimento, anche alle spalle dei disperati che stanno ancora più in basso nella scala sociale? O forse tutta l’umanità nel suo complesso, che alla fine non riesce a fare altro che autodistruggersi? Il film non sembra fornire una risposta chiara.

Bong Joon Ho aveva già affrontato il tema dello scontro tra classi sociali nel suo interessante film di fantascienza post-apocalittico Snowpiercer, del 2013. Il finale di quella pellicola lasciava però all’umanità un filo di speranza. In Parasite di quella speranza non è rimasta traccia. Sono passati solo sei anni. Cosa è successo in questo breve periodo di tempo per rendere molto più pessimista Bong Joon Ho? Non lo sappiamo, ma speriamo che si sbagli.

Alessandro Marotta

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