Questo film mette in scena la parabola discendente di Craxi, tristemente consumatasi nel suo rifugio ad Hammamet, in Tunisia. La storia comincia con un bambino che rompe delle vetrate con una fionda. Scopriremo che si tratta del giovane Craxi, che nella scena successiva viene rappresentato al massimo del suo fulgore, sul palco del 45° Congresso del Partito Socialista Italiano, dove viene eletto segretario con una maggioranza bulgara, e osannato da una plaudente folla in delirio.
Viene avvertito da quello che presumibilmente è un tesoriere del partito che sono in corso delle perquisizioni, ma Craxi, con supponenza e arroganza, lo invita ad andare in vacanza e di stare tranquillo. Nella scena seguente vediamo l’ex segretario, ormai ridotto a un dolorante relitto umano, che si trascina zoppicando, appoggiato a un bastone, nella sua villa ad Hammamet, in compagnia della moglie, della figlia, del nipotino e della sua fedele scorta armata.
Il resto del film è una lenta discesa verso l’oblio di quello che una volta era uno degli uomini più potenti d’Italia. Ecce homo.
Hammet: un film nella quale la finzione prevale sul dato storico
Nel film non vengono mai usati i nomi reali dei personaggi storici. Lo stesso Craxi viene chiamato presidente, e sua figlia, che nella realtà si chiama Stefania, è Anita, come la figlia di Garibaldi. Non viene mai fatto il nome di un magistrato di Mani Pulite, né di un politico, neanche di quello che viene a trovarlo nella sua villa, in un incontro colmo di tristezza, rimpianti e qualche rancore.
Nella storia entra in scena anche un personaggio inventato, Fausto, figlio di un collaboratore morto suicida in seguito alle inchieste giudiziarie. Tutte scelte che sembrano sottolineare la volontà del regista di prendere le distanze dalla realtà storica dei fatti, che pure costituisce il substrato su cui si basa il film, per concentrarsi sul punto di vista dell’assoluto dominatore della scena, Craxi, assurto quasi a metafora dell’uomo potente caduto nella polvere.
A Fausto l’ex segretario del PSI affida una sorta di testamento spirituale, una discorso ripreso con una telecamera a mano nel deserto tunisino, vicino al rottame di un vecchio carro armato inglese, nel quale gli dice cose che non ha mai detto a nessuno. E con quel prezioso tesoro multimediale, del quale allo spettatore non è dato conoscere i contenuti, Fausto sparisce nel nulla. Lo ritroveremo alla fine del film, in un manicomio, dove consegnerà ad Anita il prezioso nastro, esortandola a non farlo vedere a nessuno, perché altrimenti qualcuno potrebbe fare del male all’Italia. Una neanche tanto velata allusione a un possibile complotto internazionale che avrebbe decretato la fine di Craxi.
Che, peraltro, in tutto il film non fa altro che auto-giustificarsi e auto-assolversi, perché le tangenti le prendevano tutti, perché la democrazia ha un costo, perché il politico deve soddisfare tutti, perché la magistratura non può comandare il parlamento, perché lui è veramente malato, perché non c’è nessun tesoro nascosto ad Hammamet. Sarà, ma visto lo stile di vita esibito e la quantità di guardie armate schierate a sua difesa, lo spettatore può lecitamente chiedersi chi ha pagato il suo esilio dorato.
Un altra domanda sorge spontanea: un giovane spettatore che non ha vissuto i tempi di mani pulite, che idea si può fare di quel tormentato periodo storico, guardando questa pellicola? Anche perché è facile immedesimarsi in un vecchio malato, Craxi, peraltro magistralmente interpretato da un Pierfrancesco Savino in stato di grazia.
Hammamet: un film del quale verrà ricordato solo la recitazione stellare di Pierfrancesco Favino
Gianni Amelio ha scelto di rappresentare l’esilio ad Hammamet presentando solo il punto di vista di Craxi, dei suoi familiari e della sua amante. Una decisione legittima, per carità, ma di comodo, che toglie spessore al film, costretto nel perimetro delle nostalgiche, e spesso rancorose, riflessioni di un uomo ormai finito, debilitato da una malattia terribile e ormai abbandonato da (quasi) tutti.
Una scelta analoga a quella fatta da Checco Zalone, con il suo mediocre Tolo Tolo: mettere in scena un tema sul quale si può avere un’ampia risonanza mediatica senza troppi sforzi, ma senza avere il coraggio di andare fino in fondo, rifugiandosi nel tradizionale buonismo italico. Se Checco Zalone sembra strizzare l’occhio ai migranti, ma non troppo, perché poi magari qualcuno può prenderla male, Gianni Amelio sembra dare una pacca sulla spalla a un Craxi ormai finito, ma non troppo vigorosa, mi raccomando, non si sa mai che qualcuno si offenda. E poi ci si può sempre rifugiare dietro al fatto che viene messa in scena una fiction, e quindi tutto è lecito o comunque interpretabile.
Scelte analoghe che portano a risultati simili: pellicole di scarso spessore, che magari ottengono successo al botteghino ma che vengono dimenticate rapidamente. Tuttavia bisogna ammettere che Hammamet ha una marcia in più: la performance stellare di Pierfrancesco Favino. Anche grazie a un trucco che ha richiesto ore di lavoro ogni giorno di recitazione, la sua interpretazione di Bettino Craxi è eccezionale. Una luce sfavillante in un film per il resto alquanto opaco.
Perché la narrazione è molto lenta e ondivaga, schiacciata sulla figura di Craxi e sui suoi monologhi spesso contraddittori, che verso la fine della pellicola, quando la malattia inesorabilmente prende il sopravvento, deborda in una dimensione onirica e quasi metafisica, dove orientarsi non è facile. E che lascia molto poco allo spettatore che ha pagato il biglietto.
A dimostrazione che forse in Italia i tempi non sono ancora maturi per affrontare certi argomenti con serenità.
Alessandro Marotta