Napoli. Ciccillo è uno studente di medicina sfaticato e col vizio del gioco. Per ripianare i debiti chiede allo zio Felice Sciosciammocca una somma di denaro, fingendosi laureato e intenzionato ad aprire una clinica per malati di mente. Ovviamente arriva il giorno in cui lo zio vuole far visita al nipote per verificare di persona il frutto dei tanti “investimenti” e Ciccillo si trova costretto a macchinare un piano di salvataggio: cercherà di convincere Felice che la “Pensione Stella”, ove egli alloggia, sia in realtà la casa di cura da lui fondata e che gli avventori ne siano i pazienti.
Il gioco per un po’ riesce perché “visto da vicino nessuno è normale”, soprattutto se gli occhi di chi guarda sono influenzati da un pregiudizio, tanto più che gli ospiti della pensione sono tutti sedicenti artisti in bilico tra il disturbo narcisistico di personalità e quello istrionico.
Si scatena insomma una commedia degli equivoci che, tra rimandi, riferimenti, idee, diverte e, in un certo senso, porta avanti un messaggio nobile. Alla fine, quando lo zio Felice sembra definitivamente gabbato e truffato – le citazioni del Falstaff stanno lì a ricordarlo, con tanto di sberleffi che riprendono la gaia risata delle allegre comari – il meccanismo si inceppa e Ciccillo è costretto a confessare l’inganno.
È grossomodo questa la colonna portante de “Il medico dei pazzi”, azione musicale napoletana di Giorgio Battistelli, tratta dall’omonima commedia di Eduardo Scarpetta, alla sua prima italiana dopo il debutto assoluto a Nancy nel 2014.
La musica dello stesso Battistelli (che firma anche il libretto) ha una sua efficacia teatrale, persino una certa ironia, ma rischia, tra rimandi, reminiscenze verdiane, effetti buffi e allusioni, di riuscire un tantino manierata e lambiccata. Certo non si può negare che l’opera sia scritta con sapienza e mestiere: è fluida, ha buon ritmo, la fusione tra musica e testo è ammirevole.
Se lo spettacolo in scena al Teatro Malibran funziona, i meriti vanno equamente divisi tra il regista Francesco Saponaro, il maestro Francesco Lanzillotta e un cast ben assemblato.
Saponaro, che firma anche le scene, sa infondere un’apprezzabile vivacità all’azione. La recitazione rimanda chiaramente al teatro napoletano, con la sua gestualità sopra le righe e vagamente stereotipata, ma riesce efficace nel tratteggiare i caratteri sulla scena.
I costumi di Carlos Tieppo e il disegno luci di Cesare Accetta sono pregevoli e ben realizzati.
Come accennato, è bravissimo Francesco Lanzillotta a sostenere la narrazione con ottimo senso del ritmo, fondamentale per valorizzare la scrittura orchestrale, e attenzione ai dettagli strumentali senza mai perdere di vista il palcoscenico.
Il coro preparato da Claudio Marino Moretti è ancora una volta eccellente sia musicalmente sia sulla scena.
Meritano una lode tutti i cantanti, capaci di venire a capo di scritture che necessitano di una tecnica ibrida, in grado di sostenere passaggi di lirismo accanto ad altri di pura declamazione, parlato e virtuosismo “para-belcantista”.
Un plauso particolare se lo guadagnano Marco Filippo Romano, eccellente Felice, e la bravissima Milena Storti (Amalia). Se la cavano molto bene anche Sergio Vitale, esuberante Ciccillo, Damiana Mizzi (Rosina), Arianna Donadelli (Bettina/Carmela), Loriana Castellano (Concetta), Giuseppe Talamo (Michelino), Maurizio Pace (Errico), il sempre affidabilissimo Matteo Ferrara (Luigi), Filippo Fontana (Raffaele) e Clemente Antonio Daliotti (Carlo).
Buon successo di pubblico.
Paolo Locatelli
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