Recensione – È uno spettacolo che lascia il segno questa “Clemenza di Tito” in scena al teatro la Fenice di Venezia (in replica fino al 1 febbraio) e ricorda, se mai ce ne fosse bisogno, quale sia la potenza comunicativa del teatro mozartiano e quanto parli ancora al presente. Merito senz’altro di Ursel e Karl-Ernst Herrmann, autori di regia, luci scene e costumi e di un cast all’altezza della situazione in ogni singolo componente.
Una sala bianca, che potrebbe richiamare lo stile neoclassico come il design più à la page, è il Campidoglio titino che ospita questa scalata al trono imperiale, questa lotta tutti contro tutti in cui ogni personaggio diventa vittima e carnefice, congiurato e pedina, in una corsa al potere cieca e spietata.
C’è posto per i sentimenti nelle stanze del potere? Si direbbe di no guardando lo spettacolo degli Herrmann, anzi, ogni segno di umanità pare ritorcersi contro chi lo esprima, rivelandosi di fatto una debolezza. E l’imperatore Tito, al vertice della piramide, pare il più fulgido esempio di tale rinuncia, non sovrano illuminato quanto piuttosto uomo sofferente per il sacrificio, necessario alla ragione di stato, di ogni passione o istinto. E la sua aria del secondo atto suona come un appello disperato agli uomini, gli spettatori che, in una sala illuminata a giorno, diventano gli “amici dei” a cui Tito chiede “un altro cuore”, un cuore severo che lo metta al riparo dagli affetti umani, così depistanti per il suo dovere di sovrano.
Il Mozart secondo gli Herrmann è pessimistico, lo è nell’approccio al Settecento ed all’illuminismo. La ragione non è strumento per il raggiungimento del bene ma mezzo di manipolazione o di analisi disincantata della realtà mentre i sentimenti sono ambigui, talora esagerati, spesso simulati. Chi ama davvero, Annio e Servilia, rimane fuori dai giochi o, peggio ancora nel caso di Sesto, ne viene travolto.
Questo è teatro, sublime, delicato, sconvolgente. La regia degli Herrmann è a perfetta misura, ogni gesto è calibrato con cura assoluta, ogni sguardo, ogni movimento, tutto è studiato sulla musica e sulla parola.
Sul podio di un’orchestra in forma smagliante, Ottavio Dantone sapeva assecondare la forza teatrale della musica mozartiana senza sacrificare la bellezza del suono orchestrale o l’approfondimento; basterebbe citare i fraseggi dei soli o la pregnanza di significato drammatico delle pause nel finale primo. Una lettura vibrante, ricca di sfumature ritmiche e timbriche in cui ogni scelta concorreva a costruire un disegno compiuto ed organico, perfettamente aderente al palcoscenico.
Molto buona la prova di Carlo Allemano nei panni di un dolente e lacerato Tito. Il tenore possiede voce dal colore particolare ma affascinante, eccellente musicalità e autorevolezza scenica.
Carmela Remigio era una Vitellia di grande classe e personalità, impeccabile nella scrittura mozartiana. Eccellente Monica Bacelli, Sesto commovente per intensità interpretativa, espressività di fraseggio e bellezza di canto. Molto buona la prova di Raffaella Milanesi, Annio di bel timbro e buona tecnica. Solido ed autorevole il Publio di Luca Dall’Amico. Julie Mathevet era una Servilia dolce e gradevole.
Paolo Locatelli
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