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La Tigre Bianca: recensione del film di Ramin Baharani

La Tigre Bianca: recensione del film di Ramin Baharani

La Tigre Bianca

 

Disponibile su Netflix a partire dal 22 gennaio, questo film ci proietta nell’India contemporanea, mostrandoci il crudo ritratto di una società che cerca di superare la tradizionale divisione in caste, ma nel quale salire nella scala sociale è spesso un miraggio, specie se si nasce in uno sperduto villaggio.

Una società nella quale la ricchezza è concentrata in poche mani, la corruzione è una piaga dilagante, avere cure mediche e un’istruzione è un miraggio per la gran massa della popolazione, costretta a vivere in condizioni a dir poco precarie.

Per raccontarci tutto questo Ramin Baharani ci narra la storia di Balram (Adarsh Gourav), nato in una famiglia matriarcale dominata dalla vecchia nonna, e destinato a una vita miserabile come servitore in un modestissimo negozio di tè in uno sperduto villaggio nell’India rurale.

Dopo alterne vicende il protagonista riesce ad affrancarsi dal suo triste destino, diventando un affermato imprenditore. Il prezzo da pagare è però altissimo, in termini umani. Perché, come ci spiega lo stesso protagonista, per i poveri esistono solo due modi per arrivare in alto: il crimine o la politica.

La Tigre Bianca: un viaggio dalla povertà rurale alla ricchezza urbana

Balram è un giovane in gamba, pronto a cogliere al volo ogni occasione per sottrarsi al suo squallido destino. Origliando nella squallida locanda dove è costretto a lavorare per volontà della nonna, scopre infatti che la più potente famiglia del posto è in cerca di un autista.

Muovendosi scaltramente tra i doveri impostogli dal parentado e le costrizioni di una società ancora divisa in caste, nella quale gli individui sono legati a servitù di tipo feudale, Barlam riesce prima a imparare a guidare e poi a conquistare l’agognato posto. Diventa quindi l’autista personale del figlio più giovane della potente famiglia che spadroneggia nel villaggio natale.

Ashok, giovane rampollo del ras locale, che si è formato negli States e ha sposato Pinky, una ragazza di origini indiane cresciuta a New York, apparentemente sopporta male le costrizioni e l’arretratezza della società indiana, ma per mantenere il suo stile di vita deve impegnarsi nella principale attività della sua famiglia: corrompere i politici locali per non pagare le tasse e continuare a lucrare sull’industria carbonifera.

E per fare questo si muove nei scintillanti palazzi di Nuova Delhi, trasportando valigie piene di soldi, scarrozzato dal fedele Barlam. Questi è stato educato a essere un servitore, e non riesce ad affrancarsi da questo modo di pensare.

Ma in una notte di follia alcolica, Pinky e Ashok falciano con un’auto una bambina che attraversa la strada, e la loro famiglia cerca di scaricare la responsabilità su Balram. Questo evento devastante muove qualcosa nell’animo del protagonista, che si rende conto che per affrancarsi dal suo triste destino di servo deve prendere decisioni drammatiche.

La Tigre Bianca: la lotta di classe in salsa indiana

In fondo il sogno di Balram è di diventare ricco, ma senza trasformarsi in un essere disumano, come lo sono i potenti che lo circondano. Insomma il viaggio del protagonista può essere visto come un’attualizzazione del Sogno Americano nel contesto indiano contemporaneo.

Un India che in fondo sogna il mondo occidentale, ma che non riesce a liberarsi dal suo passato medievale e fa fatica a ricomporre le incredibili disuguaglianze che lacerano il suo presente.

Disuguaglianze che vedono diametralmente contrapposte l’arretratezza delle campagne e le opportunità delle grandi città, ma anche la gran massa di poveri senza speranza e la ristretta cerchia di ricchi corrotti e indifferenti alle altrui difficoltà.

Baharani dipinge un ritratto della società indiana nel quale il crogiolo multietnico e la coesistenza di diverse religioni sembra essere più un’ulteriore fonte di difficoltà per gli individui, che un occasione di arricchimento reciproco.

Il giovane Balram vuole diventare un imprenditore seguendo il modello occidentale, affrancandosi da modelli servili che la sua famiglia gli ha imposto e quindi, in definitiva, dalle sue stesse radici culturali.

E per raggiungere il suo scopo e salire la scala sociale non esita a colpire vigliaccamente chi gli sta vicino, a dimostrasi vergognosamente servile, fino ad abbandonare ogni tipo di remora morale per mettere le mani sui soldi che gli servono per creare il suo business.

Insomma la liberazione dai modelli mentali imposti dalla società tradizionale avviene grazie alla creazione di un’impresa economica, nella quale i dipendenti sono legati all’imprenditore tramite un contratto scritto, superando l’approccio servilistico, di tipo medievale, dal quale il protagonista proviene.

Il protagonista diventa un eroe e un nuovo modello per chi lo circonda, in quanto diventa un imprenditore. E se per fare questo bisogna sporcarsi le mani, pazienza. Meglio ricchi con gli scheletri negli armadi che poveri e onesti, ma senza speranza e senza futuro.

La Tigre Bianca: un film da vedere

Questo film non è quindi una fiaba a lieto fine. Tutt’altro. Se l’Oriente per crescere guarda ai modelli che vengono da oltre oceano, d’altro canto Balram è consapevole che l’Occidente è in crisi profonda, e il futuro appartiene alla Cina e all’India.

Il giovane protagonista ci ricorda infatti che i bianchi sono sul viale del tramonto, ormai gli rimane vita breve: è il secolo dell’uomo giallo e dell’uomo nero, e che Dio salvi tutti gli altri.

Insomma Baharani ha realizzato un film nel quale il mondo di Bollywood e quello di Hollywood sembrano incontrasi su un terreno familiare al grande pubblico, dominato da uno dei grandi miti dell’Occidente: l’auto-realizzazione dell’individuo, che supera ogni difficoltà grazie alle sue risorse personali, contro ogni avversità. Una auto-realizzazione che vede l’Imprenditore prendere il posto dell’Eroe epico.

Alla faccia delle caste e delle imposizioni familiari. L’Occidente sta morendo, ma i suoi valori vengono rapidamente assorbiti dall’Oriente, che sta prendendo il suo posto alla guida del globo. Perché quello che conta in tutte le società è il conto in banca, e l’unica divisione presente nel mondo, alla fine, è quella tra ricchi e poveri. Alla faccia del tmulticulturalismo, ormai declassato a mera differenza di colore della pelle tra gli individui.

Un messaggio di certo non certo esaltante, ma il racconto Baharani è ben confezionato, e le due ore del film volano. Da vedere.

Alessandro Marotta

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