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“L’amore è (oppure era) un cane blu”: il successo di Paolo Rossi al Giovanni da Udine

Un viaggio. Una vita. Forse. Il tentativo di percorrere un cammino di cui s’ignora la meta. Un’anabasi al contrario, verso i retroscena di un lungometraggio di cui si vagheggia la realizzazione, che si ripete continuamente come fosse una continua prova, una continua ricerca per la messa in scena perfetta, una discesa per l’ascesa. Alla conoscenza. Per la vita. Verso le repliche di un’esistenza che desidera svelare le contraddizioni di un errare fin troppo umano, che pecca di non sapere come rendere ragione all’amore, alla passione, alla perdita delle proprie meschinità individuali, per accedere ad una consapevolezza universale che si apre al comune sentire, alla politica, alla coscienza umana, sociale, culturale. Una catabasi che rivela l’accesso a verità inesplicabili, se non attraverso la discesa verso gli inferi, per capire che non c’è bisogno di vagabondare come teatranti erranti, senza un palcoscenico sul quale potersi esibire. La vita. Condotti, infine, semplicemente ad accettare la condizione di perdenti su una terra che non risponde alle regole dell’etica, della morale, dell’ideale, dell’essere partecipi ad una comune esperienza e politica ed esistenziale.

Il viaggio di Paolo Rossi, una vera e propria ”autobiografia non autorizzata”, attraverso le alture del Carso, sua terra d’origine, procede verso est, ma anche verso l’entroterra, verso il centro della terra, l’ombelico del mondo e l’origine di ogni uomo, verso il centro di ogni concezione, di ogni consapevolezza: l’attore comico vaga tra valutazioni sociali contemporanee e politiche, benché in forma allusiva e declinate in chiave comica, e tra riflessioni che spingono a ragionare sui rapporti umani e le relazioni affettive, e, anche se rappresentati nella loro inevitabile mercificazione e risposta al mercato consumistico, vengono edulcorati dalle note dell’orchestra dei “Virtuosi del Carso” che, con mirabile maestria, fanno da accompagnamento ai racconti mitici e reali della voce narrante, resi manifesti attraverso l’arte burlesca e farsesca, popolare e lirica del teatro che propone l’autore in maniera del tutto originale.

Un inno al talento e una difesa rispetto alla mediocrità dilagante, perché chi è dotato giunge sempre in ritardo rispetto a chi non è valente, capace di destreggiarsi fra le imperizie, le scorrettezze e le disonestà: il talentuoso finisce per titubare, per riflettere eccessivamente e per autorappresentarsi nell’eclissi umana, dinnanzi a chi è in grado di farsi spazio anche in un mondo che non rende giustizia ai giusti. Un inno alla politica vissuta, alla partecipazione sentita che muove le masse, ad una rivoluzione culturale: nella storia, però, sono sempre i potenti a muovere il popolo all’insurrezione e, imbracciando false concezioni e facendosi messaggeri di una cultura in verità non realmente compresa, e posseduta, non fanno altro che riproporre i medesimi schemi sociali pre-rivoluzionari. E allora si rende necessario un risveglio che non sia semplicemente politico, quello del voto e dell’accesso ai seggi parlamentari, bensì un risveglio umano, civile, sociale: ecco allora emergere la trovata spettacolare del genio di Rossi, le brigate clownesche, capaci di ridestare un sentimento comunitario, oramai sopito, ed una maggiore consapevolezza rispetto alla realtà storica e più propriamente umana.

Un successo senza sbavature quello registrato al Giovanni da Udine dalla compagnia artistica di Paolo Rossi, tra metateatro, musica, poesia, miti classici, autoctoni, solo eterni. “L’amore è un cane blu”, oppure era, perché forse nessuno sa più che cosa sia: era un sentimento popolare che nasceva da meccaniche a volte inspiegabili, visionarie, ma comunemente condivise, che invero sembra non avere più ragione d’essere.

                                                                                                                       Ingrid Leschiutta

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