Questo film segna un ulteriore salto di qualità nella proposta di Netflix, che ormai sfida il cinema tradizionale anche sul fronte delle pellicole d’autore. Mank, diminutivo di Herman J. Mankiewicz, è stato lo sceneggiatore del superlativo Citizen Kane (uscito in Italia con il titolo di Quarto Potere), di Orson Welles, film del 1941 che ha segnato una pietra miliare nella storia del cinema.
Questa pellicola mette in scena la storia della scrittura di questo capolavoro, raccontandola dal punto di vista dello stesso Mankiewicz (interpretato da un eccellente Gary Oldman), autore geniale sul viale del tramonto, perennemente attaccato al bottiglia e in conflitto con i potenti che comunque gli davano da vivere.
David Fincher ha affrontato una sfida difficile, con una pellicola in bianco e nero che affronta le le complesse tematiche del rapporto tra potere e media, tra intellettuali e cultura popolare, tra creatività e produzione di massa, il tutto calato nel contesto della Hollywood ai tempi della Grande Depressione.
Mank: un film complesso che è difficile apprezzare se non si conosce la storia del cinema
Tutte queste tematiche hanno caratterizzato lo stesso Quarto Potere di Orson Wells, pellicola a suo tempo di profonda rottura, sia per quanto riguarda i contenuti che il linguaggio utilizzato. Difficile riuscire a godersi tutte le sfumature di Mank se non si conosce questa pellicola.
Quarto Potere metteva in scena la storia di un magnate dei media, evidentemente ispirata alla vita di William Randolph Hearst, milionario che con il suo impero mediatico poteva condizionare l’opinione pubblica del tempo, che non aveva né social media né televisione, ma doveva accontentarsi di giornali cartacei e cinegiornali.
A differenza delle pellicole tradizionali, la struttura del film era molto frammentata, cominciava dalla morte del protagonista per proseguire con con innumerevoli flashback guardati dal punto di vista di osservatori esterni. Del magnate veniva fornita un’immagine tutt’altro che positiva, sottolineandone la bassezza morale e la cupidigia.
Come risultato, al tempo della sua uscita nelle sale Hearst scatenò tutta la potenza di fuoco dei suoi media e dei suoi capitali per oscurare il film, giungendo a offrire alla RKO una ingente cifra per distruggere la pellicola. Di conseguenza il film riceve solo un Oscar, quello alla Miglior Sceneggiatura Originale, che viene condiviso da Mank e Welles, quest’ultimo accreditato come co-autore.
Ma il tempo renderà onore a questo capolavoro, mentre Hearst vivrà gli ultimi anni della sua vita (morirà nel 1951, dieci anni dopo l’uscita di Quarto Potere) assistendo al lento ma inesorabile declino del suo impero.
Quarto Potere era un pellicola di rottura anche sotto altri aspetti. Viene fatto un ampio uso dei piani-sequenza, con inquadrature al tempo molto ardite e immagini con molta profondità di campo, cosa proibita nel cinema classico, dove invece dovevano essere messi a fuoco solo i protagonisti. Veniva inoltre fatto un largo uso di chiaro-scuri e di ombre, per dare maggiore teatralità alle scene.
Cosa forse più spiazzante di tutte, il punto di vista non era quello del protagonista: la telecamera sembrava vagare di nascosto nelle scene, inquadrando i personaggi con angolazioni ardite, invitando lo spettatore a farsi una sua idea di quello che vedeva. Cosa al tempo impensabile, per il grande pubblico.
Mank: un omaggio a un capolavoro del cinema
Anche la pellicola di David Fincher ha numerosi flash-back, che gettano una finestra sulla Hollywood degli anni Trenta, in piena Grande Depressione, seguiti dai flash-forward nel 1940, in una isolata magione persa nel deserto, dove Mank, immobilizzato a letto a causa di una frattura, scrive il suo capolavoro, assistito da una stenografa inglese e da una infermiera di origini tedesche, con l’inquieta presenza di Orson Wells che si agita sullo sfondo.
I flash-back ci portano negli studi delle case di produzione di David O.Selznik e di Louis B. Mayer, nelle quali gli sceneggiatori spesso lavoravano con un salario fisso e non venivano riconosciuti nei crediti, come era successo allo stesso Mankiewitz molte volte. Anche per la scrittura di Quarto Potere Mank inizialmente aveva accettato di non essere riconosciuto, salvo cambiare idea dopo essersi reso conto di avere scritto un capolavoro.
Al tempo la produzione cinematografica era una sorta di catena di montaggio, dove le case di produzione facevano il bello e cattivo tempo e lo spazio per la creatività personale era ridotta all’osso. Fincher tratteggia Mank come una sorta di antieroe, un intellettuale di razza costretto a venire a patti con la squallida realtà degli studios, capace di difendersi solo con la sua dialettica mordace nel mondo spietato dell’industria della comunicazione nella società di massa.
E proprio in veste di giullare alla corte di William Randolph Hearst, nella sua fantasmagorica residenza di Saint Simeon, che Mank ci viene raffigurato mentre dà il peggio di sé, ubriaco disfatto in una serata dell’alta società, prima di essere gentilmente sbattuto fuori di casa dal magnate.
Il film indugia molto sul ruolo ormai subalterno della classe intellettuale nella società di massa, dedicando molte scene alla campagna elettorale del 1934 per l’elezione del governatore della California, che vedeva lo scrittore democratico Upton Sinclair opporsi al candidato repubblicano Merriam, appoggiato da Hearst e Louis B. Mayer. I media avranno un ruolo determinante nel determinare la vittoria dei conservatori, mentre Mank riceve una sonora sconfitta personale: in primo luogo perché scommette sulla vittoria dello scrittore democratico, perdendo una ingente somma, e in secondo luogo perché contribuirà involontariamente a concepire le pellicole girate come spot elettorali per Merriam.
Mank: una chicca per cinefili
Fincher tratteggia un Mankiewitz sconfitto su tutti i fronti, salvo quello della creazione intellettuale. E sarà proprio la scrittura a permettergli di redimersi e di prendere la sua rivincita contro il potere finanziario e dei media. In Quarto Potere William Randolph Hearst diventa Charles Foster Kane, e la sua immaginifica magione di Saint Simeon viene trasposta nella fantastica Xanadu, dove alla fine more da solo, abbandonato da tutti.
E lo stesso Mank descritto da Fincher è alla fin fine un antieroe solitario, consapevole di essere arrivato alla fine del suo ciclo, e dei limiti intrinseci del cinema come metodo di rappresentare la realtà. “Non si può restituire l’intera vita di un uomo in solo due ore, ma solo provare a darne un’impressione”, ci ricorda il personaggio fincheriano.
Un Mank che alla fine rimane ancorato all’immagine dell’intellettuale di alto livello che si oppone alla cultura popolare, bene riassunta nella sua battuta: “Vieni a Hollywood, puoi guadagnare milioni e i tuoi unici rivali sono degli idioti”.
E forse questo film è stato concepito proprio per un pubblico di intellettuali e di cinefili.
Viene naturale chiedersi cosa il buon vecchio Mank dipintoci da Fincher potrebbe pensare del mondo dei media odierno. In fin dei conti, a parte il progresso tecnologico, non è cambiato molto. Anche oggi abbiamo problemi legati al monopolio dell’informazione, dominato dai giganti del Web, come Google, Twitter e Facebook, e ancora oggi c’è il problema dell’imparzialità dei media nel confronto politico, come le ultime elezioni presidenziali statunitensi sembrano dimostrare, tanto per citare un esempio.
E il mondo dei media continua a mutare, anche a causa della pandemia da COVID-19, che ha accelerato diverse tendenze già in atto, come l’avvento delle piattaforme di streaming e la crisi delle sale cinematografiche tradizionali. E Mank, non per nulla, viene trasmesso da Netflix, che sempre di più sembra proporre anche cinema d’autore…
Alessandro Marotta