Recensione – Guardare al passato per parlare del presente, della Russia e di se stesso. Basterebbe pensare all’impiego crittogrammatico che Dmitrij Shostakovich fece del proprio nome nel motto che viene a più volte ripreso durante il concerto.
Scritto nel 1959 per Mstislav Rostropovic, il primo concerto per violoncello op.107 di Shostakovich non è solamente un capolavoro di linguaggio musicale, è il manifesto di un’opposizione alla dittatura, sottintesa e parodiata nei continui richiami al folklore russo, citato e deformato a più riprese in partitura.
Al Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, il concerto di Shostakovich era affidato a Mischa Maisky, violoncellista tra i più celebri e stimati al mondo e all’Orchestra Arturo Toscanini, guidata da Asher Fisch.
Il Shostakovich di Maisky è elettrico, tellurico, quasi sgarbato. L’artista non ricerca la bellezza del suono ma la verità. Ci riesce. Un discorso musicale ricco di inflessioni, di colori, di fantasia, persino di violenza e ripiegamenti di un’intimità ritenuta. Il primo movimento è caratterizzato da un’urgenza espressiva esplosiva, perfettamente assecondata dal corno della Toscanini, il secondo è un profluvio di colori, nella cadenza Maisky dà sfogo a un virtuosismo tecnico al servizio della musica che va a risolversi in un allegro incalzante, corrusco, ritmicamente travolgente.
Il violoncellista, salutato trionfalmente a fine concerto, ha ricambiato l’affetto del pubblico con tre bis, tra cui non poteva mancare il suo celeberrimo Bach.
Dallo straordinario, con la Settima di Beethoven, si rientra nell’ordinario. La lettura di Fisch, alla guida di un’Orchestra Arturo Toscanini precisissima, è decisamente tradizionale. Un Beethoven in salsa romantica che guarda al passato piuttosto che al presente, fuori tempo massimo potrebbe sostenere qualcuno. Il suono è denso, cupo, i tempi rilassati, la trasparenza sacrificata in favore della compattezza. Ne esce una prova dal forte impatto drammatico benché povera di colori e prudente nell’agogica, solida ma routinaria.
Paolo Locatelli
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