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Squid Games: la recensione dell’imperdibile serie TV coreana su Netflix

Squid Games: la recensione dell’imperdibile serie TV coreana su Netflix

 

 

Squid Game

 

Seon Gi-hun è un uomo separato di mezz’età, sepolto dai debiti, inseguito dagli strozzini, che per campare ruba i soldi all’anziana madre, sognando il riscatto nelle sale da gioco.

È molto legato a sua figlia, ma scopre che è in partenza per gli Stati Uniti, al seguito della sua ex-moglie e del nuovo compagno di lei, un uomo economicamente agiato che le mantiene senza problemi.

Dopo essere stato costretto a impegnarsi di donare degli organi per onorare i debiti, incontra in metropolitana un elegante signore che gli propone di partecipare a dei giochi. In palio c’è un montepremi ricchissimo, che potrebbe cambiare la sua vita.

All’inizio esita, ma poi accetta la proposta e chiama il numero di telefono che gli è stato dato. Viene prelevato nottetempo da un furgone, dove viene narcotizzato.

Si risveglia in un’enorme stanzone, affollato di letti a castello. Con lui ci sono altri 455 concorrenti, maschi e femmine, tutti indossano la stessa divisa e sono identificati con un numero. Il suo è l’ultimo, il 456.

Anche le guardie indossano una divisa, che a differenza di quella dei concorrenti non permette di vedere il volto, e sono organizzati in una rigida struttura gerarchica, al cui vertice c’è il misterioso Front-Man, vestito di nero e con il volto coperto da una maschera particolare.

Il montepremi è di 45,6 miliardi di Won. Inizia il primo gioco. Un gioco per bambini. Con una variante inaspettata: i concorrenti scoprono che perdere significa morire, abbattuti a fucilate da armi che sparano dai muri che delimitano l’arena di gioco. Circa la metà sopravvive alla mattanza, gli altri sono sconvolti, ma il peggio deve ancora venire…

Squid Games: metafora delle differenze sociali abissali nella società coreana

I partecipanti sono di tutte le età ed estrazione sociale, ma sono accomunati da una caratteristica: per un motivo o per l’altro, sono alla canna del gas, sepolti dai debiti o bisognosi si guadagnare denaro per tirarsi fuori da situazioni disperate.

Il panorama è molto variegato. C’è il vecchio arzillo con un tumore al cervello che non può curarsi e ha più niente da perdere, l’ex finanziere che si è rovinato con le sue mani truffando i clienti, il boss della mala perdente, a cui i suoi nemici hanno promesso di fargliela pagare, la ragazza nordcoreana che ha disperato bisogno di soldi per salvare sua madre e il suo fratellino, recluso in un orfanotrofio, la ragazza sudcoreana appena uscita di galera, dopo avere scontato anni reclusione per avere ucciso il padre, che aveva abusato di lei.

Insomma un’umanità disperata, ma la situazione è resa ancora più avvilente dal fatto che tra i concorrenti si innescano ben presto meccanismi perversi, per cui la maggior parte di loro è pronto a ogni infamia e viltà pur di sopravvivere e passare il turno.

Anche chi controlla i giochi si rivela essere inumano, anche perché la perversione alla base dei regolamenti permette di trovare un giustificazione morale a quanto accade: in fin dei conti, tutti i concorrenti hanno aderito volontariamente, sono stati messi in condizione di giocare alla pari, e per di più, se la maggioranza di loro lo vuole, il gioco finisce in qualunque momento.

Ma la disperazione di quanti non hanno nulla da perdere è più forte dei pochi che cercano di salvare i residui della propria umanità, per cui il massacro continua, in un crescendo di efferatezze e colpi bassi.

Certo è che il quadro è abbastanza desolante, e dal momento che gli spettacoli cinematografici sono sono comunque dei prodotti culturali che in qualche modo rispecchiano le società nei quali sono creati, la Corea in fatto di squilibri e differenze sociali non deve essere messa bene. Ma questo lo avevamo già capito guardando – per esempio – il Parasite di Bong Joon-ho.

Squid Games: una serie TV imperdibile

Non mancano i VIP annoiati, che per regalarsi un momento di brio nelle loro agiate ma noiose esperienze si regalano la visione dal vero della mattanza dei giochi, comodamente seduti su lussuose poltrone, degustando vini raffinati mentre i poveri concorrenti muoiono in modo atroce, al di là di una sicura vetrata.

Certo si tratta di cose nel complesso già viste, basta citare Saw, Battle Royale, Hunger Games, Maze Runner.

Ma Squid Game ha una marcia in più, perché porta una realtà distopica nel nostro presente, mettendo in scena personaggi nei quali è difficile non immedesimarsi, anche perché si muovono in una società capitalistica le cui profonde disuguaglianze sono diventate ormai una costante universale nel mondo sempre più globalizzato.

I nove episodi, lunghi circa un’ora, sono costruiti con mestiere, e si chiudono con cliffhanger che rendono il binge-watching quasi automatico.

Le storie dei personaggi si intersecano perfettamente, mantenendo sempre alta la tensione, in un crescendo di colpi di scena ed efferatezze, ma lasciando sempre lo spazio per un minimo di introspezione psicologica.

E poi – diciamolo senza ipocrisie – la possibilità guardare le sofferenze altrui dal comodo di una poltrona, in piena sicurezza, è uno dei fattori che garantisce ottimi incassi al botteghino. Specie se il film è di qualità.

Questa serie TV è poi costruita così bene che anche l’assenza dell’audio in italiano (è disponibile solo quello coreano, con i sottotitoli nelle varie lingue) non è un problema, anzi, forse è un ulteriore valore aggiunto, perché ci immerge ancora di più nella cultura coreana, del quale questo film è espressione.

Imperdibile. In attesa del sequel…

Marotta Alessandro

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