Dal nostro inviato a Trieste
Recensione – Estremo capolavoro serio di Mozart, La Clemenza di Tito è un’opera che esemplifica la magica capacità del teatro di catturare lo zeitgeist di un’epoca, nel caso specifico lo spirito illuministico del Settecento ormai sul viale del tramonto. Quasi in contraddizione con le prese di distanza dal razionalismo esasperato della trilogia mozartiana, nella Clemenza virtù e ragione sono esaltate e celebrate, massimamente nella figura di sovrano illuminato del protagonista.
Arriva per la prima volta al Teatro Verdi di Trieste La Clemenza di Tito in un allestimento firmato da Jean Louis Grinda. La scenografia, curata da Pier Paolo Bisleri, intende cogliere l’essenza neoclassica dell’opera, nelle geometrie come nella linearità psicologica dei protagonisti: gestualità e movimenti, misurati e vagamente stereotipati, lasciano l’impressione di un mondo fasullo, reazionario, un presente rivolto al passato ed incapace di comprendere il futuro. L’ambientazione palladiana (un Teatro Olimpico di Vicenza ricostruito fin nel minimo dettaglio) e gli abiti settecenteschi richiamano un’apollinea perfezione formale, persino stridente con i gesti scellerati di cui sono capaci Sesto e Vitellia, quasi questo Campidoglio fosse la torre d’avorio che custodisce l’imperatore clemente ed illuminato e il suo mondo troppo giusto per essere vero.
Giuseppe Filianoti era un Tito Vespasiano non del tutto convincente. Forte di un mezzo prezioso nel settore medio-grave, per colore e fascino timbrico, il tenore esibiva un registro acuto non esente da forzature ed aperture poco gradevoli. Non giovava l’eccessiva cautela nell’esecuzione delle arie, in particolare le agilità di “Se all’impero” risultavano faticose e impacciate.
Nei panni di Sesto Laura Polverelli offriva una prova eccellente per musicalità e cura del fraseggio. Le minime incertezze non offuscavano una prestazione maiuscola del mezzosoprano, capace di rendere al meglio le impegnative pagine destinate a Sesto. Convinceva Eva Mei, Vitellia, che a dispetto di una voce in debito di volume nell’ottava bassa (spesso sollecitata dall’impervia scrittura, soprattutto nel rondò del secondo atto), risolveva la parte con ineccepibile consapevolezza tecnica e partecipazione. Molto buona la prova di Annunziata Vestri, Annio di bella voce e presenza, mentre piaceva meno Irina Dubrovskaya, Servilia di timbro gradevole ma musicalmente fin troppo ingessata. Marco Vinco era un Publio partecipe ed autorevole.
Il maestro Gianluigi Gelmetti, sul podio dell’ottima orchestra del teatro, optava per una direzione di buon senso, attenta alle esigenze del palcoscenico, meno alle necessità del dramma. Ne usciva una lettura curata nel suono, equilibrata ed omogenea ma teatralmente inerte, incapace di illuminare l’azione o di approfondirne le sfumature. Al solito eccellente la prova del coro del Verdi.
Paolo Locatelli
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