È uno spettacolo che merita di essere visto questa Madama Butterfly in scena al teatro Verdi di Trieste, terzo titolo in cartellone per la stagione lirica e di balletto.
Una Butterfly inserita nel solco della tradizione ma non per questo banale o scontata. Il Giappone narrato da Giulio Ciabatti (regia) e Pier Paolo Bisleri (scene e costumi) mescola alla crudezza della vicenda uno sfondo quasi astratto, idealizzato, un mondo fragile e delicato che accoglie con tinte tenui la gestualità leggera ed armoniosa dei personaggi. In perfetta antitesi la rozzezza dirompente da elefanti in cristalleria degli yankees, incapaci di calarsi in un simile contesto senza devastarne gli equilibri. Sicuramente l’approccio non è innovativo né apre scenari inediti sulla vicenda della geisha pucciniana, tuttavia la realizzazione complessiva, grazie alla bellezza di scene e costumi e alla cura della regia, finiva per convincere pienamente. Allo stesso modo lo sviluppo psicologico dei protagonisti ricalca i luoghi della tradizione: Cio-cio-san è che una bambina che diventa donna e, innamorata fino all’irragionevolezza, vede il proprio castello di speranze disfarsi irrimediabilmente. Non c’è la curiosità di indagare più profondamente tra le pieghe della psiche di questo personaggio enigmatico su cui si stagliano le ombre di un’epoca – siamo nel primo novecento – ricca di fermenti nell’ambito della psicanalisi e dei primi approcci strutturati allo studio della psichiatria. C’è invece la vicenda privata di una donna normale che ripone in un uomo tutto l’amore di cui è capace, tutte le speranze di una vita, cui affida se stessa, il proprio corpo e la propria esistenza.
Protagonista era il soprano Amarilli Nizza, artefice di una prova maiuscola. A dispetto di un registro acuto faticoso e non sempre a fuoco, la Nizza ha disegnato una Cio-cio-san intensa, sofferta, forte di una cura puntigliosa della parola e dell’accento. Dopo un primo atto non completamente convincente in ragione di un’eccessiva forzatura del lato infantile del personaggio, il soprano offriva una seconda parte commovente per introspezione e verità interpretativa. Al suo fianco Luciano Ganci era un Pinkerton dal registro acuto squillante e spavaldo, un medium poco sonoro e carisma scenico non travolgente, Filippo Polinelli uno Sharpless di bel timbro e presenza autorevole. Buona la prova di Chiara Chialli, Suzuki materna e coinvolgente. Non impeccabile nell’intonazione ma sicuro in scena il Goro di Gianluca Sorrentino.
Davvero ottima la prova di Donato Renzetti alla guida di un’orchestra del teatro Verdi in splendida forma. Il maestro sapeva unire alla cura del suono, levigatissimo e terso, un passo teatrale incalzante, eccellente senso della narrazione ed attenzione per il palcoscenico. Piaceva la ricchezza di sfumature timbriche e dinamiche che il direttore otteneva dall’orchestra, capace di esprimere una morbidezza di suono ed un calore che mai scadevano in languori o sentimentalismi a buon mercato.