Dal nostro inviato a Trieste
Recensione – Il tema dell’antichità classica filtrata attraverso la sensibilità cristiana fa di The Rape of Lucretia il perfetto preambolo alla più celebre “La Clemenza di Tito” che impegnerà il teatro Verdi tra poche settimane, non fosse altro per la maggiore fama dell’opera mozartiana rispetto al più elitario Britten. Spiace a dirsi ma a tutt’oggi, presso il pubblico italiano, il compositore inglese non gode della fama che meriterebbe, prova ne sia la scarsa affluenza di pubblico al teatro triestino per il primo stupro di Lucrezia della sua storia.
Opera da camera non tra le più facili, The Rape of Lucretia è senz’altro uno dei vertici del teatro musicale del novecento. La musica di Britten è un gioiello di alchimie e colori, Roland Duncan riduce a misura di melodramma Le Viol de Lucrèce di Obey in un libretto denso di poesia e indagine filosofica, aspetti che tuttavia sembrano interessare marginalmente al regista e scenografo Nenad Glavan. Glavan sceglie di calcare la mano sul lato politico della vicenda, accentuando la dimensione militare e storica: il potere è il centro focale della tragedia, Lucretia un casus belli per la rivolta romana alla supremazia etrusca (quella da cui nascerà la repubblica), le dinamiche di forza un discorso circolare, secondo una precisa idea di ciclicità della storia. Tutto ciò è rappresentato dall’impianto scenico, un anfiteatro semicircolare sviluppato attorno ad un vertice centrale ripreso in live streaming da una telecamera, simbolo appunto di quel potere che è il primum movens della vicenda. Per il resto la regia appariva eccessivamente statica e stereotipata, fatti salvi alcuni momenti coreografici (tra cui lo stupro che risultava di qualche effetto) alle volte fin troppo rumorosi per la levità musicale dell’opera.
Ryuichiro Sonoda guidava i dodici impeccabili maestri d’orchestra che la partitura chiama in causa con ottima musicalità e varietà di colori, esaltando l’atmosfera rarefatta ed ipnotica della musica di Britten ma senza rinunciare ad approfondire la narrazione teatrale, sempre nel rispetto dell’equilibrio cameristico delle parti.
Lasciava alterne sensazioni Sara Galli, Lucretia impeccabile sulla scena ma in debito di volume, trovandosi a cantare una parte troppo grave per il proprio baricentro vocale. Ne risultava un canto affascinante nelle frasi più acute, arricchito con suggestive aperture e soluzioni cromatiche adatte all’opera novecentesca ma afono nel registro medio-basso. Positivo il coro maschile del tenore Alexander Kröner, cantante dotato di voce poco avvenente ma sonora e squillante, sicurissimo nel canto e nell’impervia articolazione sillabica che Britten richiede. Buona anche la prova di Katarzyna Medlarska, voce del coro femminile. Tarquinio era affidato al basso Carlo Agostini, autore di una prova incolore perché irrisolta, sia in ragione della vocalità opaca sia per la presenza scenica intimidita. Nuria Garcia Arrés era una Lucia di bel timbro mentre Dijana Hilje evidenziava, a discapito di un volume notevole, un vibrato largo poco piacevole. Marijo Krnic dava voce e corpo a un Collatino partecipe e ben centrato, corretto il Giuno di Gianpiero Ruggeri.
Calorosa l’accoglienza del non folto pubblico in sala con applausi convinti per tutti.
Paolo Locatelli
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