La Cineteca del Friuli ha messo gratuitamente a disposizione del pubblico la versione restaurata di questo melodramma, uscito nelle sale cinematografiche esattamente cento anni fa.
The Tiger’s Coat (Pelle di Tigre) è una pellicola resa famosa dal fatto che la protagonista femminile è interpretata da Tina Modotti, ed è l’unico film, dei tre nei quali ha recitato l’eclettica artista friulana, che è sopravvissuto fino ai nostri giorni. Niente è purtroppo rimasto degli altri due, Riding with Death, del 1921, e I Can Explain, del 1922.
La storia comincia in una piovosa serata, nella sontuosa villa di Alexander MacAllister, in una ricca cittadina della California meridionale, La Classe. Dopo un alterco con il suo acerrimo nemico, il commerciante Andrew Hyde, il padrone di casa riceve la visita di una giovane donna (interpretata da Tina Modotti), che sostiene di essere Jean Ogilvie, figlia di un suo vecchio amico scozzese. Nonostante sia uno scapolo impenitente, Alexander rimane folgorato dalla bellezza e dalla sensualità della nuova venuta, superando l’iniziale perplessità per la sua carnagione, troppo scura per una giovane donna scozzese. In realtà la ragazza è messicana, si chiama Maria della Guarda, ed era la serva della figlia dell’amico di Alexander, morta a causa di un’epidemia di febbre gialla, in un villaggio sulla costa messicana.
Maria non è un’avventuriera, ed è combattuta interiormente tra il desiderio di dire la verità ad Alexander, e la paura delle conseguenza che la sua rivelazione potrebbe provocare. Questo suo dramma emerge con forza quando viene ospitata nella casa di campagna dei coniugi Mendall. Carl, pittore in crisi creativa, la accoglie su richiesta di Alexander, che è un suo mecenate. L’artista viene a sua volta colpito dalla provocante bellezza di Maria, che diviene la sua musa ispiratrice. Ed è proprio una delle caratteristiche fisiche che il pittore le attribuisce (“Siete così: capelli corvini, labbra rosso sangue, occhi scuri e pelle di tigre”) che dà il nome alla pellicola.
Ma l’acerrimo nemico di Alexander, Andrew Hyde, trama nell’ombra, e invia un investigatore nel villaggio di Tehuana, sulla costa del Messico, da dove proviene Maria. La verità viene a galla, e viene vigliaccamente rivelata ad Alexander alla vigilia del matrimonio.
Alexander lascia Maria, che scappa dalla casa dei Mendall. Dopo qualche settimana, per ironia del destino, Maria ritorna a La Classe, dove si esibisce come danzatrice in uno spettacolo nel Teatro dell’Opera. Alexander, che si è pentito di averla lasciata, chiede invano di essere ricevuto da lei nel suo camerino. Ma è proprio Maria a tornare a casa del suo amato, gettandosi tra le sue braccia, in una notte tempestosa simile a quella nella quale la storia era cominciata, nell’inevitabile lieto fine con il quale si conclude questa semplice storia, dalla struttura circolare.
The Tiger’s Coat (Pelle di Tigre) – un film che dimostra tutti i suoi cent’anni, ma che proprio per questo merita di essere visto
Questa pellicola è un tipico prodotto del suo tempo. Un film senza macchia e senza lode, che visto ai nostri giorni può fare sorridere per l’ingenuità di alcuni passaggi, a cominciare dal colore della pelle di Maria, secondo Alexander troppo scuro per una ragazza scozzese, ma in realtà reso cereo dal trucco di scena.
Quello che forse lascia basiti è il linguaggio usato dai personaggi, leggibile nelle didascalie di questo film muto, che ai nostri giorni verrebbe percepito come profondamente razzista. Basti pensare a quanto affermato da Alexander quando rivela a Maria di avere scoperto la sua vera identità: “Credevo di avere dato il mio amore a una dal sangue puro come il mio. Invece mi trovo legato a una peona di basse origini, che appartiene a una razza odiata e disprezzata!”. Atteggiamento mentale che conferma quando confida alla moglie di Carl Mendall di essere ancora innamorato della ragazza messicana, che aveva appena lasciato: “L’amore ha vinto sull’orgoglio della razza”. Ma ogni film è anche uno specchio della società nella quale è stato girato, e da questo punto di vista può essere considerato un documento storico, che getta uno sguardo sulla cultura dominante del suo tempo.
Gli anni Venti sono il periodo in cui si assiste all’ascesa di Hollywood, durante il quale si stabilizza il sistema dei generi, nasce lo studio system e lo star system. Tina Modotti aveva ricevuto un’ottima accoglienza dalla stampa del tempo, e probabilmente sarebbe potuta diventare una stella del cinema, se non avesse deciso di abbandonare la sua esperienza nel mondo dorato della celluloide dopo avere recitato in solo tre pellicole. In questo film è possibile apprezzare la sua recitazione, che appare contenuta nei movimenti e maggiormente focalizzata nell’espressività del volto, se paragonata con le grandi dive del cinema muto a lei contemporanee.
Il suo ruolo è quello di impersonare una bellezza esotica, incarnando una delle due polarità che si incontrano e scontrano nel film: quella creativa e artistica. Dall’altra parte c’è il mondo raffinato, ma asettico, dell’alta borghesia del mondo WASP (White Anglo-Saxon Protestant), personificato nella sua versione benigna da Alexander MacAllister, in quella maligna dal suo bieco arcinemico, il viscido Andrew Hyde. Un dicotomia rimarcata dalla differenza di razza e di estrazione sociale dei due protagonisti. Nel finale i due mondi si fonderanno nell’immancabile trionfo dell’amore, capace di travolgere ogni avversità. Del resto il genere melodrammatico era già stato codificato nei primi anni Venti: un altro finale era impensabile, per il tempo.
Un plauso va alla Cineteca del Friuli, che ci ha regalato la versione digitalizzata di questa pellicola, proposta con le musiche di Bruno Cesselli. Da vedere.
Alessandro Marotta