In tempi di campagna elettorale, quali sono quelli attuali, si assiste ad una generale tendenza all’esasperazione dei comportamenti umani. All’improvviso si nota l’ergersi a paladini della giustizia di personaggi altresì ignoti che, per qualsivoglia visione celeste o fulminea conversione, si rendono conto che, «no, così non si può andare avanti» e che, sì, forse, facendo qualcosa per gli altri ci si potrà garantire un posto in cielo o, più plausibilmente, ripulire un po’ la coscienza che ci si era dimenticati di possedere.
E così, casualmente, a poche settimane dalle elezioni amministrative, si fanno largo dalla penombra che li aveva, evidentemente, inghiottiti fino a poco prima, delle figure, per così dire, mitologiche, un po’ romantiche, un po’ «romaniche» e un po’ cavalleresche: i populisti.
Certo, le avvisaglie, specie di questi tempi, si eran fatte già sentire: i social network, mass media a portata di tutti e di facile utilizzo, già traboccavano di ammiccanti status antipolitici, facile garanzia di apprezzamenti e esaltanti commenti da parte di quello che i nostalgici chiamerebbero il popolo, mentre ora, nell’era di Facebook, definiremmo gli «amici». Amici che poi, attenzione, diventano elettori. Si, elettori, ovvero coloro i quali, forti della civica facoltà di voto per cui uomini e donne si sono battuti nei secoli scorsi, hanno la capacità di garantire ai loro beniamini la possibilità di amministrare un paese, conferendogli una carica pubblica.
Ma i nuovi cavalieri, cosa sono esattamente? A-politici, antipolitci o politicanti? A-tecnici, antitecnici o irrazionali? A-partitici, forse? Ma se hanno le tessere di partito ben nascoste in tasca. Hanno paura a dircelo?
Se un cittadino, coerente con se stesso (e qui i dubbi si insinuano), ha votato B. fino l’altro ieri, non si può definire a-politico, oppure a-partitico, nel candidarsi. Sarà irresponsabile sì, ma non certo «pulito», o estraneo (alla politica). Il passato è inflessibile, anche se l’italiano ha la memoria corta.
Se al contrario c’è qualcuno che non ha mai votato, o partecipato, fino a ieri cosa diavolo ha in mente di fare? Salvare il mondo? Che illuminazione! E fino a ieri dov’era? Ad allenarsi, a prepararsi (in segreto) per la battaglia. La coerenza è sempre ben accetta, ricordiamocelo.
E allora, come categorizzarli? Come definire chi, cavalcando l’onda del disfattismo e del diniego a tutti i costi, si propone di immolarsi sull’altare della patria per il bene comune, rinnegando, possibilmente, ogni compenso in denaro per i servigi da essi svolti?
Non si è capito un granché, di questi nuovi mostri. Sono contro i politici, ma vogliono far politica. Sono contro i compensi, è chiaro. Ma la democrazia, dove sta? La possibilità di dare a chiunque, con qualsiasi reddito, tempo e modo di partecipare. E’ una democrazia per soli ricchi? Com’è che si chiama? Ah sì, aristocrazia (non come «migliori» ma come nobili), ecco. E’ così tanto che non esiste che quasi ce ne si era scordati. Sono dunque contro la democrazia questi cavalieri? Così pare. Sono contro il governo tecnico, certo. Quindi anti-tecnici? Sembrerebbero più a-razionali.
È evidente la necessità di coniare un termine, un neologismo che possa efficacemente rimandare a questa figura, attualmente innominabile, che dona sé stesso pro patria, arricchendosi solo spiritualmente, o, magari, alimentando il proprio narcisistico ego a colpi di like.
La verità, o quanto ci è dato da osservare in maniera empirica, è che incarnano quanto di più populistico la storia recente abbia saputo offrirci. Cavalcando le paure della gente, il malcontento generale e il loro bisogno di «giustizia» e sicurezza.
I rivoluzionari del ventunesimo secolo hanno con sé gli smartphones al posto dei forconi, ma vaglielo a spiegare tu che “l’esito delle rivoluzioni tecnologiche non dipende dallo strumento in sé” ma da come tutti assieme lo si utilizza, e dalla qualità dei contenuti.
Elisabetta Paviotti
Francesco Contin
© Riproduzione riservata