Dal nostro corrispondente in Germania
L’inverno non poteva offrire una giornata più adatta per questa visita: cielo grigio-bianco, vento sferzante e neve ovunque. Neve posata sopra un campo di concentramento che è stato a lungo IL campo di concentramento, il modello che diventò consuetudine negli anni a seguire: Dachau. Sito a breve distanza da Monaco, si presenta con un immancabile ufficio informazioni con annesse biblioteca e caffetteria, che oltrepassate svaniscono in una folata bianca, già uscite dalla mente concetrata su quello che sta per presentarsi: a mano a mano che ci si avvicina al portone di ingresso, si indovinano i contorni di una recinzione possente e di una torretta. Un arco massiccio completamente chiuso racchiude al suo interno un’inferriata, con un cancello dotato della tristemente famosa scritta “arbeit macht frei”, la bruciante beffa rivolta a chi lo varcava. Attraversato, si presenta il grande spiazzo dell’appello, dove ogni mattina e ogni sera gli internati dovevano rimanere un’ora in piedi, e a destra il grande edificio che ospitava gli uffici. Oltre a questo, rimangono due baraccamenti, le fondamenta delle baracche distrutte, le sette torrette di guardia lungo il perimetro, e, in fondo, i forni crematori. Camminare sulla neve, tra le piante delle baracche ordinate come le tombe in un cimitero, seguendo il perimetro un tempo dotato di doppia recinzione (di cui una elettrificata), magari socchiudendo gli occhi, fa muovere meccanicamente l’immaginazione, e sembra quasi di percepire la sofferenza provata da troppa gente in quel posto ora semideserto. Forse è proprio questa mancanza di vita, questo bianco angosciante e tremendo che incombe e brucia gli occhi, a rendere l’idea di sofferenza meglio di molti discorsi. Forse invece è semplicemente il fatto di aver l’impressione di assiderare pur indossando un cappotto e una cuffia di lana, mentre gli ospiti di questo posto altro non avevano che una specie di pigiama di cotone, e allora l’aver freddo fa quasi un po’ vergognare. Arrivati ad un certo punto, seguendo la recinzione a sinistra della porta, si raggiunge un cancello di rete col telaio in legno che permette l’accesso ad una zona separata del campo. Nell’attraversarlo riesce difficile non sentire un brivido lungo la schiena, ben distinto da quelli provocati dalla temperatura. A sinistra, passata una cappella commemorativa russo ortodossa, si presenta un piccolo edificio, un po’ nascosto fra gli alberi: il vecchio crematorio. Al suo interno, due forni. A questo, e ben più visibile anche dall’altra sezione del campo, fa fronte una costruzione di mattoni, più lunga e dotata di diversi vani e di un’agghiacciante canna fumaria. Dentro a questo, situate metodicamente in ordine da sinistra a destra, una serie di stanze. Nell’ingresso vi sono delle piccole celle a tenuta stagna dove venivano messi i vestiti per la disinfestazione: da qui si accede ad una stanza di concentramento, un vestibolo, dove i malcapitati lasciavano i propri abiti nell’illusione di una doccia. Successivamente una porticina con la scritta “brausebad”, ossia “docce”, immette in una piccola, bassa e buia camera a gas, soffocante già per l’aspetto, a cui sono stati asportati i “doccioni”. Attraversato quest’orrido vano, si accede ad una stanza adibita a deposito, seguita da una camera più grande dotata di quattro forni crematori. La stanza successiva è un altro magazzino per cadaveri. Uscendo, e assaporando di nuovo un’aria che sembrava mancare all’interno dell’edificio, un sentiero porta in un cimitero dove venivano sepolte le ceneri. Tornando al perimetro principale del campo, passate le cappelle confessionali (una protestante, una cattolica ed una ebraica) dove un tempo sorgevano i fabbricati dei laboratori e del postribolo del campo, si può inforcare il vialone centrale, con ai lati due file di vetusti pioppi. Quasi in fondo, vi sono i due baraccamenti superstiti con la ricostruzione delle brande dei prigionieri, e con annessi servizi igienici per i detenuti. Infine, sul fondo, l’edificio che era a destra dell’ingresso, ospitante il museo del campo, la cui visita è giustamente vietata ai minori di anni 12. Museo, questo, che spiega la nascita e la vita del campo di Dachau da quando era una vecchia fabbrica di munizioni in abbandono a quando venne liberato dalle truppe statunitensi, attraverso il dolore e lo strazio di migliaia di persone.
Una volta inforcato il sentiero per uscire da questo enorme sacrario, nel ritrovarsi di fronte il negativo della beffarda scritta e girandosi per dare un’ultima occhiata al tutto, balenano davanti agli occhi le fotografie del museo, e si va man mano ricostruendo il campo com’era stato: il piazzale dell’appello gremito di persone in piedi, il vialone con i baraccamenti (dove i prigionieri si ritrovavano nei pochi momenti di libertà), i laboratori, poi gli uffici, e quasi si immagina il brusio delle voci, interrotto solo dai comandi abbaiati dalle guardie. Sforzandosi di non dare ultime occhiate ulteriori, per trovare particolari magari sfuggiti in precedenza, e uscendo dal grosso arco bianco, si perde una pesantezza che gravava sulle spalle senza farsi sentire, la pesantezza forse data dall’idea di oppressione, di sofferenza, dal pensiero di come venisse servita la morte attraverso il lavoro, la fame e il freddo. Nell’abbandonarlo, emerge la speranza che la scritta in cinque lingue (italiano escluso) all’interno del campo, “mai più”, possa essere più vera che mai. E nel contempo, si sente la consapevolezza che difficilmente una visita del genere potrà abbandonare la nostra memoria.
Alcune foto del campo di concentramento di Dachau:
Simone Callegaro